2 Feb 2018

Talebani e ISIS: l’Afghanistan ancora nella morsa del terrore

Nel 2018, il conflitto in Afghanistan è destinato a intensificarsi. Sono due le ragioni principali. La prima ha a che fare con la scelta del presidente Usa, Donald Trump, di derubricare come secondaria la via negoziale e privilegiare l’opzione militarista, il ricorso ai droni e alle operazioni speciali: sotto pressione nelle aree rurali, i movimenti […]

Nel 2018, il conflitto in Afghanistan è destinato a intensificarsi. Sono due le ragioni principali. La prima ha a che fare con la scelta del presidente Usa, Donald Trump, di derubricare come secondaria la via negoziale e privilegiare l’opzione militarista, il ricorso ai droni e alle operazioni speciali: sotto pressione nelle aree rurali, i movimenti anti-governativi hanno già dirottato parte delle proprie risorse e capacità operative per colpire obiettivi urbani, garanzia di maggiore copertura mediatica, come dimostrano i recenti attentati. La seconda rimanda a una partita interna al panorama jihadista. Si svolge dentro i confini afghani, ma ha importanti conseguenze transnazionali: l’antagonismo tra i Talebani, il più longevo gruppo anti-governativo, e la “Provincia del Khorasan” (ISK), la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, formalmente istituita nel gennaio 2015, ma già attiva dalla fine del 2014.

La posta in gioco è l’Afghanistan. Un Paese che – dal punto di vista simbolico, più che strategico – ha una valenza straordinaria nel panorama del jihadismo. Culla del jihad contemporaneo, è qui infatti che hanno preso vita tendenze strategiche e indirizzi dottrinali che avrebbero influenzato l’islamismo armato, dall’internazionalismo jihadista (Abdallah Azzam) al jihad decentralizzato e pulviscolare (Abu Musab al-Suri), ed è qui che si sono formati i principali combattenti e ideologi del fondamentalismo, da Osama bin Laden al giordano Abu Musab al-Zarqawi, padre putativo dello Stato islamico del sedicente Califfo. Dalla fine del 2014, pochi mesi dopo l’instaurazione del Califfato in Siria e Iraq, lo Stato islamico cerca non solo di guadagnarsi un posto di rilievo in Afghanistan, ma di intestarsi l’egemonia del jihad. Un tentativo che ha minacciato il “monopolio” dei Talebani e che ha ulteriormente frammentato la galassia degli “studenti coranici”, divisi da sempre, ma in particolare in seguito all’annuncio della morte dell’Amir al-Muminin, mullah Omar, a lungo tenuta nascosta. Le diverse shure talebane hanno reagito in modo diverso di fronte all’ingresso dell’ISK in Afghanistan. E le singole posizioni sono cambiate, nel corso del tempo. La shura di Quetta, per esempio, che include anche l’attuale leader dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, ha sempre guardato con sospetto all’ISK, contro il quale ha combattuto militarmente, ma poi ha finito con il promuovere una tregua parziale, per evitare di dissipare importanti risorse militari e politiche, da investire contro il governo di Kabul. La shura di Miran Shah, anche detta rete di Haqqani, la componente più intransigente dei Talebani, aliena a ogni compromesso e più vicina al jihadismo transnazionale (oltre che all’establishment militare pachistano), ha optato sin dall’inizio per l’apertura di canali di comunicazione con l’ISK, sebbene la “Provincia del Khorasan” le abbia sottratto porzioni di territorio, finanziamenti, comandanti anche importanti. Mentre la shura di Mashad, vicina ai pasdaran iraniani, continua a preferire lo scontro diretto, consapevole che lo Stato islamico abbia fatto del settarismo confessionale, e degli attacchi agli sciiti, una delle coordinate strategiche principali.

Scontro frontale, tolleranza, tregue sul campo. Sono queste – come suggerisce Antonio Giustozzi – le opzioni tattiche adottate dai Talebani nei confronti dei seguaci del Califfo. Oltre alle discussioni interne, nelle scelte degli “studenti coranici” hanno contato due fattori, in particolare: le pressioni esterne, degli attori regionali e internazionali che, con i loro finanziamenti, possono condizionarne l’agenda; la resilienza sul campo dell’ISK. Quanto al primo aspetto, va ricordato almeno il ruolo di Iran e Russia. Per contenere l’espansione dell’ISK nell’area, Teheran e Mosca hanno consolidato il proprio sostegno ad alcune componenti talebane, e non sembrano disposte ad accettare alcun compromesso tra i Talebani e l’ISK, a meno che le tregue sul campo in Afghanistan non allontanino dalla casa-madre la “Provincia del Khorasan”, conducendola su posizioni più malleabili. Quanto alla resilienza, l’ISK ha dimostrato di saper resistere alla controffensiva militare degli Stati Uniti, delle forze di sicurezza afghane, dei gruppi locali, dei Talebani, soprattutto nelle provincie orientali di Nangarhar e Kunar. Un esito non scontato. Ma non sufficiente, per soddisfare le ambizioni del Califfo al-Baghdadi, che intendeva strappare l’Afghanistan ai Talebani, tradizionalmente nell’orbita di al-Qaeda, per dimostrare simbolicamente la sua egemonia nel jihadismo contemporaneo.

L’operazione non è riuscita. E allo stato attuale è inverosimile che riesca: i Talebani rimangono una forza militarmente e politicamente molto più solida. L’ISK – oggi divisa in due fazioni – sembra ormai riconoscerlo. Ma rinunciare alla lotta per l’egemonia, trasformarsi in uno dei tanti gruppi che invocano il jihad in Afghanistan, sarebbe letale per un movimento che vive dell’esibizione muscolare della propria forza e delle proprie capacità militari. D’altronde, nonostante le spinte dei pachistani per un avvicinamento ulteriore tra i Talebani e l’ISK, una loro alleanza rimane inverosimile, oggi. Rimane poi un dato di fondo: l’ISK ha dimostrato di essere militarmente resiliente, sulla breve durata, ma non è detto che si dimostri politicamente longeva, come organizzazione.

Da questo punto di vista, la sfida più difficile è superare indenne il crollo dello Stato islamico in Siria e Iraq: “l’utopia realizzata” del Califfato è stata a lungo la principale carta in mano al Califfo per il reclutamento. Oggi è un’arma spuntata. Se non saprà sostituirla con lauti finanziamenti, la sua branca afghana rischia di essere assorbita nel grande gioco nell’arco di pochi anni.

 

di Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore, autore di “Arcipelago Jihad. Lo Stato Islamico e il ritorno di Al-Qaeda”

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