14 Feb 2018

Tillerson e l’alleato riluttante

Blog @L'inviato errante

Che cosa fare con Erdogan? Le sue provocazioni, anche quando difende gli interessi nazionali della Turchia, sono diventate quasi insostenibili perché attuate con una sistematica violazione del diritto internazionale e delle regole della diplomazia. Prima arriva il fatto compiuto, la provocazione poi, se è il caso, viene anche il resto. È stato così con l’operazione militare nel Kurdistan siriano, con il blocco della nave Saipem, con lo speronamento di una nave greca. L’Europa lo ammonisce ma sa perfettamente che è sotto ricatto per l’accordo sui 2,5 milioni di profughi che il presidente turco si tiene in casa. 

A determinare il futuro anche immediato sarà soprattutto la missione ad Ankara del segretario di stato americano Rex Tillerson che è stata preceduta da quella del consigliere per la sicurezza nazionale, il generale McMaster.

I due alleati storici della Nato, i due eserciti più potenti dell’Alleanza, si fronteggiano nei fatti e a parole in quello che il confronto più acceso che si sia mai visto in campo occidentale negli ultimi decenni. “C’è il rischio di una frattura insanabile”, ha avvertito nei giorni scorsi il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, con un riferimento velato anche al caso di Fethullah Gülen, l’imam in esilio in Usa, la bestia nera del governo turco; mentre Erdogan ha minacciato di muovere anche verso Manbij dove stazionano gli americani.

La Siria quindi è il test fondamentale. Gli americani nella zona curda siriana sono ai ferri corti con la Turchia. Hanno sostenuto le milizie curde contro il Califfato, le hanno utilizzate nell’assedio di Raqqa, le tengono schierate per contenere Assad e adesso le vedono bersagliate dalle truppe turche e dalle formazioni che appoggiano Ankara, addestrate a suo tempo proprio dagli Stati Uniti in funzione anti-Assad. L’errore è stato all’inizio, quando sotto assedio dell’Isis a Kobane, i curdi siriani furono colpiti dai jihadisti con l’assenso di Erdogan: chi scrive era a Kobane nell’ottobre 2014 e ha visto le truppe turche bastonare i volontari curdi sulla frontiera e lasciare via libera agli islamisti.

L’obiettivo finale della Turchia sembra abbastanza evidente: intende scavare una fascia di sicurezza dentro al confine siriano per tenere a bada le milizie dei curdi, considerati terroristi alleati del Pkk turco-curdo. Non è chiaro se i turchi si fermeranno intorno al cantone di Afrin, raggiungendo lo scopo di spezzare la continuità territoriale dei curdi siriani, oppure, come ha dichiarato il presidente turco, se si spingeranno oltre, dove rischiano di confrontarsi con i soldati americani.

Se la Turchia si ferma all’area intorno ad Afrin è possibile che si possa arrivare a un congelamento della situazione. Bisogna esaminare due punti fondamentali. Il primo se la Turchia si accontenta di questo obiettivo, con i relativi rischi militari e politici di un’occupazione, il secondo come garantire che la situazione venga davvero cristallizzata. Ci sono quattro attori principali in campo: la Turchia, gli Usa, la Russia e la Siria di Assad. Tutti hanno obiettivi diversi sul breve medio termine. La Russia avrebbe dato il suo assenso all’operazione militare di Erdogan in cambio di avere mano libera con Bashar al Assad nella regione di Idlib dove sono concentrate le forze dell’opposizione tra cui le milizie jihadiste e quella affiliate ad Al Qaeda. L’obiettivo minimo degli Usa è proteggere i curdi siriani altrimenti il loro prestigio nella regione verrà pericolosamente scalfito. È vero che gli Usa hanno annunciato un progressivo ritiro delle truppe dall’Iraq, ma il disimpegno di Washington non può essere certo totale: non è da escludere, secondo alcune fonti diplomatiche, che gli Usa possano chiedere ai loro alleati occidentali che si trovano già in Iraq – come l’Italia –  di fare un’azione smile di stabilizzazione anche in Siria: ma qui naturalmente la situazione è ancora più complessa e necessita del consenso di molti attori. Siamo quindi ancora nel campo delle ipotesi, non confermate, che sarebbero affiorate durante la visita del ministro della Difesa Usa James Mattis venuto a Roma nei giorni scorsi per una riunione di 15 di ministri della Difesa della coalizione internazionale anti-Isis.

Nel suo viaggio in Medio Oriente, già iniziato in Egitto, il segretario di stato Usa tocca cinque capitali chiave: oltre al Cairo sono previste le tappe di Kuwait City, Beirut, Amman e naturalmente Ankara. Non c’è Israele ma forse non era così necessario vista l’intesa tra il presidente Donald Trump il premier israeliano Benjamin Netanyahu. il generale Abdel Fattah al-Sisi è in piena campagna elettorale per le presidenziali. in Kuwait sono in agenda due conferenze, una della coalizione contro l’Isis, l’altra sulla ricostruzione dell’Iraq; a Beirut e Amman le discussioni saranno incentrate sul tema di Gerusalemme capitale. Ma il dossier più scottante è quello che deve affrontare con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’alleato riluttante a ogni compromesso.

 

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