Andare oltre la cultura dello scarto

Andare oltre la cultura dello scarto

di Fabio Folgheraiter

Per andare oltre la «cultura dello scarto», denunciata da Papa Francesco, è necessario forse uno scarto di cultura. Reagire davvero all’insensibilità crescente del nostro tempo richiede non già di lisciare il pelo al senso comune bensì di forzarne le logiche radicalmente. Non basta dire: non è giusto «buttare via» le persone fragili, metterle ai margini, tenerle «fuori dai giochi».

Premure di questo genere le riserviamo ormai anche alle immondizie, agli avanzi del nostro cibo o agli imbarazzanti imballaggi dei nostri acquisti che sempre più, per non soffocare, giustamente auspichiamo che siano recuperati e riciclati.

Tra noi che intendiamo difendere i diritti delle persone che la nostra cultura, con linguaggio oppressivo, definisce «scarti», da tempo ci si chiede: perché le persone fuori norma o fuori standard (i malati di mente, i devianti, gli inabili, eccetera) dovrebbero essere accatastate ai margini o addirittura «escluse» dalla nostra società? Perché dovremmo chiuderle in luoghi chiusi (i manicomi, gli istituti, le comunità terapeutiche, le scuole speciali, persino certe Rsa), che a volte rischiano di divenire ghetti, simboliche discariche umane? Accettarli così come sono sarebbe - ci diciamo - una questione di giustizia, di rispetto dei diritti e della dignità umana. Anche gli ultimi, i derelitti, le persone piene di problemi e di disgrazie, sono gli uomini che sono. Esattamente come noi. Siamo forse noi «più» di ciò che siamo?

Rispetto ai tanti che dicono che gli scarti umani - essendo scarti - non valgono niente, e perciò vanno semplicemente ignorati o buttati, ogni simpatia nei loro confronti è un bel progresso, ma fino ad un certo punto. Purtroppo non ci si accorge che quel modo giusto di negare il loro stigma in realtà lo presuppone. Si parte da una premessa inattaccabile ma sbagliata, e cioè che gli scarti siano… scarti.
L’errore diviene tanto più insidioso quanto più, paradossalmente, sofistichiamo i nostri aiuti. Quando ad esempio mettiamo in essere, a favore delle persone da noi definite «fragili», progetti clinici o rieducativi un poco presuntuosi. Spesso pensiamo che la maniera ottimale e definitiva per fare il bene degli scarti sia quella di farli diventare radicalmente altro rispetto a ciò che essi sono. Perché non sottoporli  ci diciamo - a «trattamenti» socio-sanitari o riabilitativi risananti e ristrutturanti? Perché con le nostre abilità non togliamo le carenze in loro incorporate?

Tali povere persone sono degli scarti purtroppo, ma per fortuna noi abbiamo in serbo per loro qualche rimedio! Non solo non li emarginiamo e non li stigmatizziamo; non solo li assistiamo. Ci industriamo pure a «riverniciarli» e a «trasformarli» facendoli divenire «bravi e belli» come noi. Affinché non si possa più dire che sono degli scarti, ecco che noi cerchiamo di cambiarli «in conformità alla nostra idea», come direbbe Levinas.

Analoghe considerazioni valgono per quei possibili scarti che agli occhi di tanta nostra gente sono gli immigrati. A volte ci dichiariamo a favore degli immigrati e però lo facciamo con animo opportunistico. Ne parliamo «bene» perché ci servono. Che senso ha – ci diciamo - attaccarli verbalmente o addirittura respingerli quando essi, svolgendo i lavori umili che noi rifiutiamo, tornano utilissimi per far girare la nostra società cosiddetta avanzata ma che in realtà è malaticcia se non addirittura, a guardare bene, forse anche bolsa? Abbiamo idea di cosa ci aspetta? Con il disastro demografico incombente, è certo che gli immigrati potranno sorreggerla, la nostra società, e pure tanto. Facciamo dunque attenzione, e anche un po’ di conti con carta e penna, prima di gridare, come fa certa politica, contro di loro!

Ribadiamolo. Questo modo di ragionare a favore degli scarti è intuitivo e sensato, ma non completamente evangelico, per così dire. È un pensiero migliore di chi pensa che gli emarginati e gli immigrati siano un pericolo o una fonte d’infezione e che ce li dobbiamo togliere d’attorno. Affermare che noi aiutiamo gli scarti non esprime tuttavia l’idea di un’autentica relazione.
Per chiarirci questo punto, si può partire da qualche autorevole citazione. Ad esempio, da quella del teologo Ermes Ronchi («i poveri sono coloro che ci convertiranno, che ci metteranno davanti a ciò che è bene e ciò che è male») o forse in maniera più esplicita da quella famosa dell’evangelista Matteo («le pietre scartate dai costruttori saranno testata d’angolo»).

Testata d’angolo addirittura! Lo «scartato» - dice il Vangelo - è un punto di forza. Il costruttore non solo utilizza le pietre scartine invece di buttarle, per risparmiare sul costo delle opere, bensì le considera sotto certi aspetti le pietre migliori di cui dispone.
Migliori «di chi» e «in che cosa», ci chiediamo. Rispondiamo che tanti esseri fragili, pur se magari gravemente deficitari in tante aree del loro funzionamento, possono essere «migliori» di tanti di noi, italiani standard: migliori di me che scrivo e di te che leggi nonché migliori di tanti nostri amici e conoscenti, e persino parenti. E lo può essere esattamente nel punto più sensibile che ci riguardi: quello della semplice umanità.

Noi che sempre diciamo di voler contribuire nel nostro piccolo, come persone socialmente responsabili e di buona volontà, a costruire qualche premessa di una società dell’umano, allora dobbiamo ammettere che, per tale compito, abbiamo bisogno noi di tanto aiuto da parte degli scarti. In merito a comprendere ciò che sia o non sia umano nell’Uomo, leggiamo pure S. Tommaso d’Aquino se ci piace ma teniamo in conto che la materia non è solo dei filosofi: tante persone scartate dalla società dell’opulenza e dell’efficienza ne sanno intuitivamente molto più di noi. Noi d’altronde, indaffarati uomini d’oggi, di tutto ci possiamo vantare tranne che che di essere particolarmente umani.

«Il genio della malattia» – diceva Thomas Mann – «è più umano di quello della salute». Per definizione, le persone fragili, proprio in virtù delle sofferenze conoscono che cosa sia la humana conditio fino in fondo. Tanti cosiddetti “ultimi” che noi aiutiamo ci potrebbero aiutare a loro volta, se li sapessimo ascoltare, a comprenderci circa il senso del nostro vivere. Essendo essi portatori di competenze sapienziali che non ci è al momento consentito afferrare, ci possono essere Maestri, come lo è stato Gesù in croce.

I poveri, i malati cronici o terminali, gli emarginati e i disperati (nel senso di Kierkegaard); le persone deboli che hanno attraversato fasi di vita turbolente o devastate senza incattivirsi o senza degradare irreversibilmente la loro umanità, grazie anche forse all’incontro costruttivo con il volontariato e i servizi sociosanitari, queste persone possono essere viste quasi come degli «sciamani» o dei profeti illuminati: persone che hanno attraversato linee di confine esistenziali a noi precluse e che poi sono ritornate indietro per sensibilizzarci rispetto a che cosa ci sia qualche metro oltre il nostro naso.
Anche nel caso degli immigrati, vale il discorso.

Loro ci portano in dono una cultura «altra», sensibilità a noi estranee entro l’alveo della comune umanità. Molti di loro oltretutto ci offrono esperienze di vita per noi non solo inimmaginabili, ma pure insostenibili. Il rispetto perciò, come prima cosa. Se un «minore non accompagnato» - ad esempio - arriva su un barcone in tempesta fino a noi, che senso ha guardarlo come un poveretto da aiutare? Va anche aiutato naturalmente, ma soprattutto ammirato come un vivente eroico, un esperto di resilienza e di vita estrema. Aiutiamolo perciò in tanti modi, ma soprattutto riconoscendogli appunto lo status di maestro. Diamogli possibilità di parola. Disponiamoci ad ascoltarlo. Invitiamolo nelle classi a incontrare i nostri adolescenti suoi coetanei. Preghiamolo di narrare loro la sua storia, quella della sua famiglia e del suo paese. Mettiamolo in condizione di aiutarci, più che farlo sentire un assistito.

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