«Castità? Diamo ai preti la libertà di scegliere»

di Lorena Stablum

Sarebbe bene che la Chiesa prendesse coscienza che i tempi sono cambiati. In sintesi, possiamo dire che è questo il pensiero di Vito Mancuso a proposito della regola che la Chiesa impone ai propri sacerdoti sul celibato.

Teologo, docente universitario, scrittore, Mancuso non entra nel merito dei fatti che hanno investito le comunità della Valsugana, ma propone una riflessione sul tema con la saggezza che viene da chi ha approfondito la questione anche dal punto di vista della dottrina e dei testi sacri. E la sua, anche in questo caso, è una posizione che non sembra allinearsi molto a quelle delle gerarchie ecclesiastiche.
«Quando si fanno delle promesse, uno deve essere vincolato a queste - spiega ancora prima di entrare nel merito del tema -. Se uno sente di non poter essere all’altezza di ciò che ha promesso, dovrebbe trarne le conseguenze. Il celibato fa parte delle condizioni d’ingaggio dei preti. Detto ciò, quella del celibato non è una condizione strutturale».

Cosa significa?

Il sacerdote non è il monaco per cui il voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio. Per i sacerdoti e i presbiteri, che determinano la loro vita nel servizio alla comunità, il nesso con il celibato non è strutturale, ma storico. Nel primo millennio, il celibato dei preti non era obbligatorio. Il Nuovo Testamento parla degli apostoli come uomini sposati e per secoli i preti hanno avuto famiglia. Dal secondo millennio il sacerdozio viene modellato sulla struttura del monaco per la progressiva valutazione negativa della sessualità. C’è un secondo motivo, di ordine più politico: il non avere famiglia, rende i preti più controllabili e si evitano tutti problemi connessi all’eredità dei beni.  

Ma oggi ha ancora senso imporre ai parroci il celibato?

La Chiesa nel terzo millennio ha il grosso problema delle vocazioni. In Occidente ci sono pochissimi preti e le vocazioni non sono proprio così splendenti. Molti giovani seminaristi rinunciano alla vita sacerdotale proprio per questa questione. È perciò un nodo gravissimo da sciogliere, il quale è parte determinante del futuro della Chiesa stessa. E siccome il celibato non è strutturale - Gesù ha scelto i propri discepoli tra persone sposate - è arrivato il tempo di discutere sul serio di questo tema se si vuole che il messaggio spirituale della Chiesa continui a vivere.

Secondo lei, Papa Francesco come affronterà la questione?

Nella Chiesa si sta dibattendo intorno ai «viri probati». Uomini, cioè, che hanno una famiglia, che hanno dato prova di una vita esemplare e che, se lo richiedono, possono essere ordinati sacerdote. Uomini scelti tra i laici preminenti che, una volta diventati sacerdote, continuano a mantenere i propri affetti e i propri legami. Cosa farà il Papa? Da quello che posso capire lui vorrebbe portare delle novità, ma non ci sono le condizioni. Visto che non è più tanto giovane e considerati i problemi di opposizione interna, dubito che possa andare oltre all’istruzione del problema...

Perché rimane difficile per la chiesa parlare di sesso?

La sessualità, e non solo nella religione cattolica, rimane un tabù in tutte le religioni, o in gran parte. Per molti vescovi l’idea che un prete possa avere una vita affettiva normale rimane ancora difficile da accettare. Credo che molto dipenda dal tipo di educazione ricevuta. Non vedo altri motivi. Il celibato deve essere una libera scelta. Conosco preti celibi straordinari, di una sensibilità non comune. Ma non penso che la modalità migliore di vivere la consacrazione del proprio tempo sia il celibato. Per qualcuno, questo diventa l’impossibilità di vivere sereni.

Cosa dovrebbe fare la Chiesa?

Riprendere i segni dei tempi e lavorare su due temi: uno, appunto, è quello dei «viri probati», l’altro riguarda il diaconato femminile, che è strettamente collegato. Non ci sono fondamenti biblici che impediscano questo. Sarebbero due segnali che porterebbero ossigeno a una Chiesa che oggi appare come una struttura invecchiata.

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