C’è una sola persona, in Italia, che potrebbe, se solo lo volesse, entrare in tackle scivolato sulle gambe del governo per mandarlo anzitempo negli spogliatoi. Il suo nome è Alessandro Battista, capo dell’ala movimentista del Movimento Cinque Stelle. Chiunque altro, o componente della maggioranza gialloverde, o esponente delle opposizioni di destra e sinistra, potrebbe a malapena fare il solletico all’esecutivo in carica. 

E così pure i fantomatici Poteri Forti, accreditati in passato di influssi satanici e di ragnatele inconfessabili, oltre che di complicità al di sopra di ogni sospetto. In realtà quei Poteri Forti erano la quintessenza dei Poteri Morti, ma alla letteratura politologica cospirazionistica piaceva, e tuttora piace assai, la descrizione di un’Italia eterodiretta da padroni occulti.
Ma non divaghiamo. Secondo antico costume (non solo italico, in verità), gli alleati, gli amici e i vicini di banco costituiscono le insidie più pericolose per chi governa, di solito indaffarato a parare i colpi degli oppositori ufficiali, e quindi impreparato a fronteggiare operazioni ostili organizzate dagli insospettabili rivali interni. Sarà così anche stavolta?
Finora Di Battista, forse la stella più luminosa e popolare della galassia grillina, ha dato dimostrazione di estrema lealtà nei confronti dello stato maggiore del Movimento: da Beppe Grillo a Di Maio, da Casaleggio fino al contiguo Conte. Di Battista ha dato prova di assoluta sincerità soprattutto nei confronti di Di Maio, non contrastando la sua nomination a leader indiscusso del M5S dentro e fuori il governo. Per rendere ancora più credibile la sua linea di conclamata correttezza verso l’attuale vicepresidente del Consiglio, Di Battista non solo non si è candidato alle politiche del 4 marzo scorso (pur non avendo certo problemi di rielezione), ma è andato alla riscoperta dell’America, ponendo tra sé e la politica romana una distanza più vasta dell’Oceano Atlantico.

Una mossa a sorpresa, che un docente di realismo politico loderebbe davanti ai suoi allievi. Spesso in politica fare un passo indietro equivale a farne due avanti in tempi ravvicinati. Per dire: se all’indomani della batosta referendaria (dicembre 2016), Matteo Renzi avesse sperimentato su se stesso (come pure aveva annunciato) la soluzione del passo indietro modello Di Battista (poi con annessa trasferta negli Usa), probabilmente oggi il golden boy fiorentino troneggerebbe ancora sulle prime pagine dei giornali, e il Pd sarebbe rimasto una sua dependence. Invece, Renzi ha preferito sfidare l’universo mondo e adesso arranca nelle retrovie.

Di Battista ha fatto l’opposto di Renzi. Il che ha accresciuto il suo prestigio non soltanto all’interno dell’esercito pentastellato. Gli è sufficiente twittare da chissà dove per calamitare l’attenzione dei mass media. Gli basta premere l’acceleratore sui temi tradizionali (no Tap, no Tav, no Ilva) del macrocosmo grillino per indurre un presidente di Regione a rivolgersi a lui come suprema cassazione sui casi più controversi di politica industriale (e ambientale).
Insomma, Di Battista non c’è, ma è come se ci fosse. Eccome. Anzi, la sua assenza fa più rumore della sua presenza. Se poi questa assenza, fisica e non politica, è propedeutica alla pubblicazione di un libro che, ovviamente, verrà accolto come il Manifesto della sua rentrèe definitiva nell’arengo capitolino, beh non è necessario aver studiato a Oxford per dedurre che il volume non passerà inosservato e che, di conseguenza, il suo autore tutto farà tranne che il gregario passivo, pronto solo a passare la borraccia al suo capitano.

Non ci vuole molta immaginazione per ipotizzare, se non fissare, il ritorno di Di Battista, sul terreno della battaglia elettorale, in occasione delle europee 2019. Di fatto mancano pochi mesi all’evento.
Ma quale sarà la linea di Di Battista se davvero il politico-reporter concorrerà per un posto a Strasburgo? Sarà una linea «governativa», appiattita sul governo, o sarà una linea «movimentistica», com’è nelle corde, nella cultura e nel carattere dell’uomo? E poi quale sarà il traguardo, in termini di consenso personale, della corsa per l’europarlamento? Le europee hanno sempre rappresentato un test fondamentale per misurare la popolarità dei leader. E superare la soglia del milione di preferenze, ad esempio, costituisce una motivazione irresistibile per tutti i candidati di peso smaniosi di testare il proprio indice di gradimento nel Paese e presso l’elettorato di riferimento. Ecco: oltrepassare la quota di un milione di preferenze potrebbe rivelarsi per Di Battista un trampolino perfetto per condizionare dall’esterno l’azione del governo e la strategia del Movimento.

Se così fosse, se le europee lo laureassero mister un milione di preferenze, Di Battista si ritroverebbe, a prescindere dalla sua volontà, a svolgere il ruolo inevitabile di contraltare di Di Maio, di co-leader o anti-leader si vedrà. Con tutti gli effetti collaterali che questa consacrazione elettorale comporterebbe sulla sorte del governo, sulla natura di alcuni provvedimenti, sul rapporto con la Lega di Salvini, sulla dialettica tra l’anima ministeriale e l’anima radicale dei Cinque Stelle.

Diciamo che Di Battista finirebbe per personificare vieppiù lo spirito battagliero del grillismo, spirito irriducibile che forse farebbe più fatica a penetrare tra i banchi parlamentari, dove potrebbe prevalere l’istinto di conservazione; ma che forse farebbe meno fatica a imporsi nell’opinione pubblica più vicina ai propositi originari del vangelo a cinque stelle.
In ogni caso, con il rientro, formale oltre che sostanziale, di Di Battista sulla scena pubblica, non sarebbe più la stessa partita. Per il governo e per tutti gli altri. 

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