Giuseppe De Tomaso

Disse una volta Friedrich Engels (1820-1895), autore con il suo amico Karl Marx (1818-1883) del Manifesto del Partito Comunista, di aver imparato i princìpi dell’economia più dal «reazionario» scrittore francese Honoré de Blzac (1799-1850) che da tutti gli altri economisti messi insieme. Un po’ come far notare che se la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali, anche l’economia è una cosa troppo seria per affidarla solo agli economisti.

E la Politica? E il Potere? La buonanima di Niccolò Machiavelli (1469-1527) può a ben diritto ambire al titolo di più geniale politologo di tutti i tempi. Ma quando il creatore de Il Principe si mise in testa di mettersi (politicamente parlando) in proprio, le sue ginocchia cominciarono a tremare, così il teorico dell’«uomo solo al comando» (nell’interesse dello Stato, si capisce...) si

trasformò in un piccolo vassallo, incerto e fallace, titubante e neghittoso.
Sosteneva Raymond Aron (1905-1983), forse il politologo più acuto del ventesimo secolo: «Gli uomini fanno la storia, ma non conoscono la storia che fanno». E pure Henry Kissinger, già segretario di Stato Usa, uno fra i pochissimi politologi in grado di affermarsi anche come politico, non si discostava molto dal Maestro francese: «I presidenti degli Stati Uniti pensano di cambiare il mondo, ma poi è il mondo a cambiare i presidenti degli Stati Uniti».

Ecco perché aiutano a comprendere la genesi e le astuzie del Potere (l’attività più seduttiva, inafferrabile e misteriosa di questa terra) più le storie, le biografie di dittatori e leader democratici, di statisti e governanti vari, che migliaia di polverosi trattati stipati nelle biblioteche, laddove il Potere viene analizzato con la pazienza e la pignoleria di un entomologo, cui però sfugge la metafisica, o meglio la metapolitica, del Potere medesimo: le passioni, gli umori, le debolezze, i tic, i difetti, le ossessioni, le rivalità del genere umano, ossia di quel «legno storto» esaminato dalla filosofia kantiana.

Bruno Vespa nel suo ultimo libro Soli al comando, 501 pagine, edito da RaiEri-Mondadori, è riuscito a fotografare, radiografare e analizzare il Potere e l’arte del Comando attraverso il ritratto di 28 protagonisti dell’ultimo secolo, suddivisi in 10 categorie (I grandi dittatori, i grandi democratici, i miti di una generazione, i rivoluzionari conservatori, chi guida il mondo, le mine vaganti, i giganti italiani, i grandi rivali, i mai soli al comando, quelli della Terza Repubblica). Ci sono tutti: Hitler, Stalin, Mussolini, Franco, Churchill, Roosevelt, De Gaulle, Kennedy, Mao, Castro, Reagan, Thatcher, Trump, Putin, Merkel, Xi Jinping, Kim Jong-un, De Gasperi, Togliatti, Craxi, Berlinguer, Moro, Fanfani, Andreotti, Renzi, Berlusconi, Grillo e Gentiloni.
Con stile sapido e incalzante, Vespa ce li presenta nel «privato» e nel «pubblico», con aneddoti e retroscena, spesso inediti, che raffigurano e illustrano il personaggio meglio di mille istantanee rubate o di mille documenti top secret spuntati dagli archivi.

Vespa non è né tifoso né partigiano. Descrive, non prescrive. Da giornalista che ama più i fatti che le interpretazioni, schiva e demolisce i teoremi e i cospirazionismi. E fa parlare gli eventi e i loro artefici. Da soli.
Ma non tutti gli «uomini soli al comando» sono uguali nella considerazione del saggista. Le preferenze di Vespa vanno ai De Gasperi e ai Reagan, alle Thatcher e ai Churchill, a coloro cioè che, al termine del mandato, hanno consegnato il Paese in condizioni più soddisfacenti rispetto a quelle da loro trovate al momento di assumerne la guida. In fondo la distinzione tra uno statista e un uomo di governo è tutta qui: il primo lascia la scrivania con un bilancio (non solo economico) migliore rispetto a quello iniziale. E perciò si fa sùbito rimpiangere. I governanti normali non lasciano traccia. Quelli non destano alcun rimpianto.
Il trentino Alcide De Gasperi (1881-1954) ricostruì l’Italia e fece per il Sud quello che non farà nessun altro, ma siccome la gratitudine non alberga nei Palazzi del Potere, l’uomo di fu congedato proprio dai suoi «amici», da quelli che avevano aperto alle «correnti» in casa propria. E di sicuro, se De Gasperi fosse rimasto ancora in vita, il suo partito, già affollato di franchi tiratori, non lo avrebbe inviato sul colle più importante della Capitale.

Paradossalmente dimostrarono più amicizia reciproca i due successivi cavalli di razza dello scudo crociato: Aldo Moro (1916-1978) e Amintore Fanfani (1908-1999). Per lunghe fasi della storia dc, dove si trovava uno non si trovava l’altro. Se Fanfani rompeva da sinistra, Moro si trovava a destra. E viceversa. Ma, nel momento cruciale, nei 55 giorni successivi al rapimento del presidente dc in via Fani, il pony aretino scalpitò come non mai per salvare la vita al morello pugliese prigioniero nei covi delle Br.

Vespa non crede al complotto kissingeriano contro Moro, né alle minacce dirette da parte del potente ministro Usa. Ma è innegabile che la «strategia dell’attenzione» verso la sinistra comunista non provocasse festeggiamenti e brindisi di benvenuto tra i big a stelle e strisce.

E veniamo all’oggi. Il Renzi che si confessa a Vespa è, quasi, il contraltare del Renzi che pareva destinato a segnare la storia italiana almeno per un altro ventennio. È un Renzi prudente e autocritico, realista e speranzoso. Certo, non è un Renzi rinunciatario e arrendevole, anzi. Ma il Renzi post-referendum è lontano anni luce dal Renzi pre-referendum.
All’opposto il Cavaliere, una sorta di Rieccolo-due, dopo il primordiale timbro di Rieccolo appioppato a Fanfani. Berlusconi già si rivede nei dintorni di Palazzo Chigi. Qui lui non entrerà in prima persona, ma forse potrà farlo per interposta persona (Antonio Tajani? Re Silvio non lo esclude).

Anche Beppe Grillo spera di entrarci per interposta persona (Luigi Di Maio), ma non è escluso che alla fine, nella dimora che fu della famiglia Chigi, resti Paolo Gentiloni, il leader più refrattario al leaderismo e meno accostabile alla definizione di «uomo solo al comando».
Paradossi della Storia. E del Potere.

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