Con l’affossamento della legge sullo ius soli a opera degli assenteisti che hanno fatto mancare il numero legale nell’aula di palazzo Madama, s’è chiusa nel modo peggiore una delle peggiori legislature nella storia repubblicana: la legislatura delle occasioni perdute, si potrebbe dire, a cominciare dalla riforma costituzionale bocciata nel referendum del 4 dicembre 2016. Per chi crede nei misteri della cabala, il numero 17 non ha portato bene al Parlamento italiano. Tanto da alimentare la magra speranza che difficilmente la prossima legislatura potrà essere più negativa della precedente. Quella che si sta concludendo ha segnato il record del trasformismo, con oltre 500 “voltagabbana” passati dal partito in cui originariamente erano stati eletti a un altro gruppo. 

E per quanto il Senato abbia cercato in extremis di mettere uno stop a questo indegno fenomeno di “transumanza” - come l’ha definito il pluriparlamentare pugliese Pino Pisicchio, nel suo pamphlet I dilettanti - approvando una riforma del proprio Regolamento interno che vieterà in futuro i cambi di casacca, rimane aperta una “questione di fiducia” tra gli elettori e gli eletti che sta alla base della delega di rappresentanza. Se i cittadini non si riconoscono nei loro rappresentanti, per la fondamentale ragione che non sono loro a sceglierli bensì i vertici dei rispettivi partiti, si determina fatalmente un cortocircuito che provoca disaffezione e distacco dalla politica.

La legge elettorale con cui andremo a votare il 4 marzo, denominata “Rosatellum” dal nome del capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato che l’ha proposta, non contribuirà purtroppo a ridurre il distacco fra il “Paese reale” e il cosiddetto “Paese legale” che – per la verità – appare sempre più illegale. Saranno i capipartito a compilare ancora una volta le liste dei candidati e non basterà certamente il 25% di collegi uninominali a restituire al corpo elettorale una parte del suo diritto a scegliere i propri rappresentanti: tant’è che perfino Beppe Grillo s’è riservato la facoltà di decidere nella quota maggioritaria i nomi del Movimento Cinquestelle, per garantire un minimo di credibilità e autorevolezza.

È come se si fosse spezzato il rapporto di fiducia che deve legare gli elettori e gli eletti. Eppure, è proprio questo il presupposto fondamentale di una democrazia rappresentativa, la base su cui si fonda la delega parlamentare. E anche per questo motivo, a parte il fatto che il “Rosatellum” non favorirà la formazione di una maggioranza stabile e omogenea, occorrerà quanto prima rimettere mano a una nuova legge elettorale.

Nel corso di questa legislatura da dimenticare, dopo il “governo tecnico” presieduto da Mario Monti (16 novembre 2011-27 aprile 2013) che aveva concluso la sedicesima, abbiamo avuto ben tre “governi del presidente”, uno dietro l’altro, guidati nell’ordine da Enrico Letta (28 aprile 2013-22 febbraio 2014); quindi da Matteo Renzi (22 febbraio 2014-12 dicembre 2016); e infine da Paolo Gentiloni nell’ultimo anno. Una serie di esecutivi insediati direttamente dalla presidenza della Repubblica, senza un’effettiva investitura popolare. Ora è vero che il nostro è un sistema parlamentare, ma non c’è dubbio che una tale sequenza abbia compromesso la sintonia fra governanti e governati, divaricando i cittadini italiani da palazzo Chigi, come la faglia sottomarina che allontana la Sicilia dal resto della Penisola.

Sarà, dunque, una legislatura tutta da scoprire quella che inizierà nel 2018. Una legislatura che, proprio perché si annuncia come una fase di passaggio o di transizione, potrebbe anche riservarci qualche sorpresa. Per esempio, una “Grande Coalizione” fra il centrodestra, o almeno la componente di Forza Italia, e il centrosinistra superstite di Renzi. Oppure, un’alleanza delle forze anti-sistema, dai Cinquestelle alla Lega, magari con l’appoggio della sinistra-sinistra di Grasso, Bersani & compagni. C’è solo da consolarsi all’idea che in Germania, il paese leader dell’Ue, a tre mesi dalle ultime elezioni Angela Merkel non è riuscita ancora a formare un nuovo governo.

Per quanto riguarda l’Italia, noi non possiamo dimenticare però che il nostro è il Paese più fragile e vulnerabile fra i maggiori d’Europa. Quello che ha il debito pubblico più grosso. Quello che ha il tasso di crescita più basso. Quello che ha la disoccupazione, soprattutto giovanile e soprattutto al Sud, più alta. Un’instabilità di governo non gioverebbe certamente alla nostra crescita e al nostro sviluppo. E rischierebbe, anzi, di innescare una speculazione finanziaria sui mercati internazionali.
Che cosa possiamo fare, che cosa può fare ciascuno di noi, in una situazione così delicata e complessa? Per quello che serve, usare il voto a nostra disposizione nel modo più costruttivo possibile. In primo luogo, resistendo alla tentazione di disertare le urne e andando a votare, per non alimentare l’astensionismo che favorisce i nemici più o meno occulti della democrazia. In secondo luogo, votando per quelle forze politiche che possono partecipare alla ricostruzione nazionale, avviando una ripresa più consistente e duratura. E infine, almeno per quanto riguarda i collegi uninominali, privilegiando i candidati più qualificati e affidabili, anche indipendentemente dalla loro appartenenza a un determinato partito o movimento. Non sarà il voto di protesta, né tantomeno il non voto, a risolvere i problemi dell’economia, del lavoro e della giustizia sociale che affliggono l’Italia in questa difficile congiuntura.
Giovanni Valentini

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