Moda e sacralità intrecciate in un copricapo. «Il turbante per me è qualcosa di divino. E mai prima d’ora nessuno mi aveva chiesto di toglierlo. Sarebbe come denudarmi di fronte agli altri». Rotola nella storia della sua vita con la pesantezza di un macigno, l’«offesa alla dignità» di cui qualche giorno fa si dice essere stato vittima Harpreet Singh, a un banale varco di controllo. Un fuori onda inaspettato figlio, secondo lui, di una esasperata perquisizione che si è trascinata dietro uno scontro in punta di diritti e doveri. Lancette indietro. Colori caldi, tinte unite e qualche fantasia più estrosa: si presentano in queste varianti i turbanti indossati quotidianamente e rigorosamente abbinati agli abiti, da Harpreet, 34 anni, radici nella profonda India, regione del Punjab, di cui profetizza usi e costumi, nonché l’orgoglio di appartenenza, e cittadino del mondo.

Da sette anni in Italia, residente a Modugno, Harpreet, un fedele sikh che indossando il turbante rispetta il segno identificativo per eccellenza della sua religione, ha fatto della cultura d’origine un universo da raccontare, muovendosi in prima linea lungo un percorso di sensibilizzazione. In veste di rappresentante della Sikhi Sewa Society in Puglia, un organismo impegnato nella diffusione della religione monoteista che si fonda sull’insegnamento di dieci guru che vissero in India tra il XV ed il XVII secolo, ha curato la regia di varie manifestazioni interculturali, feste dei popoli e incontri in biblioteche e scuole. Un condensato di attività per spiegare cos’è il Sikhismo, quali sono i simboli e le tradizioni, lasciando ai partecipanti la possibilità di indossare il copricapo: uno stratagemma utile a rimaneggiare l’eventuale trama di una società che non è in grado di tollerare le diversità. Ma evidentemente c’è ancora parecchio lavoro da fare.

«Avantieri giunto alla motorizzazione per sostenere la prova a quiz dell’esame di guida, mentre il poliziotto all’ingresso mi ha lasciato entrare senza problemi, dopo aver comunque fatto i controlli di routine e chiesto di lasciare il cellulare, gli altri addetti mi hanno insistentemente chiesto di levare via il turbante o per lo meno di sollevare in parte il copricapo, lasciando scoperte le orecchie. Non riuscivo a capire il motivo, né loro mi spiegavano. Di fronte alla mia reazione tutt’altro che accomodante hanno accettato di accompagnarmi in bagno, un luogo appartato insomma, e controllare che sotto il copricapo non ci fossero dispositivi o altro, per poi lasciarmi entrare in aula con addosso il turbante».

Passano poche ore e lui trasforma l’incidente in «incendio». Perché la sua giornata è stata condizionata così come l’esame che il ragazzo non è riuscito a superare. «Se vogliono agire in sicurezza e facilitare i controlli devono munirsi di metal detector come in aeroporto e non umiliare la gente violando il diritto a indossare il copricapo» rumoreggia di rabbia Harpreet convinto della necessità di esporre a gran voce le proprie ragioni. Raccontare quella che lui definisce una vera incursione nella privacy, profanando i dettami di una religione prima ancora che uno stile di vita, potrebbe servire a scongiurare il verificarsi di episodi simili.

LA MOTORIZZAZIONE: PRECAUZIONE CONTRO LE FURBATE - «Ne abbiamo viste di tutti i colori. Sistemi con ricetrasmittenti al seguito, cuffiette arrotolate e nascoste sotto i copricapo. Ecco, siamo abbastanza scottati, per cui i controlli serrati sono l’unica via per evitare probabili furbate». Dalla motorizzazione giustificano l’atteggiamento avuto dagli addetti alla sicurezza con Harpreet, seppur non ci fosse alcuna intenzione di violare il credo della sua religione. «Utilizziamo già dei metal detector portatili, ma non sempre sono in grado di rilevare eventuali dispositivi elettronici- aggiungono- Del resto il compromesso raggiunto con il ragazzo, e quindi la possibilità di verificare in un ambiente appartato l’assenza di oggetti vietati sotto il turbante, dimostra l’assoluta buona fede dei nostri dipendenti».

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