Per il regime comunista cecoslovacco che lo aveva arrestato per «alto tradimento» era solo una spia, da sterminare «come un insetto» mediante lavori forzati, freddo, radiazioni provenienti dal pechblenda, materiale altamente tossico che era costretto a lavorare a mano. Per la Chiesa è invece un Beato, un modello di santità e di coraggio, un martire che si è sacrificato per salvaguardare la vocazione dei giovani preti. Il salesiano don Tito Zeman è stato elevato oggi agli onori degli altari a Bratislava, in una affollatissima celebrazione nella chiesa della Sacra Famiglia presieduta dal prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il cardinale Angelo Amato.

Primo dei dieci figli di due contadini dalla profonda fede cattolica, Zeman nacque il 4 gennaio 1915 a Vajnory, a pochi chilometri dalla capitale slovacca, e trascorse la sua infanzia nella malattia fino a quando guarì miracolosamente per intercessione della Vergine Maria. A Lei decise da quel momento di affidare la sua intera esistenza. Divenne sacerdote a 25 anni, nel 1940. Si racconta che durante la festa per la sua prima messa fosse stato trovato del sangue dentro alle focacce che alcune donne avevano cotto per lui, un segno subito interpretato come una chiamata al futuro martirio. Prospettiva che Zeman non rifiutava, considerandola il punto più alto della vita cristiana.

Forse per questo non ebbe alcuna paura durante la sistematica persecuzione della Chiesa da parte del regime comunista instauratosi nella Cecoslovacchia post-bellica. Difese il simbolo del crocifisso nei luoghi pubblici e pagò con il licenziamento dalla scuola in cui insegnava. Ma c’erano sfide ben più ardue ad attenderlo. Sfuggito alla “Notte dei barbari” del 13-14 aprile 1950, quando la polizia segreta del regime comunista razziò brutalmente tutti i conventi e arrestò i religiosi, si incaricò di far passare illegalmente il confine cecoslovacco-austriaco ai preti portandoli a Torino nella casa madre dei Salesiani in modo che potessero completare gli studi teologici, raggiungere il sacerdozio e riedificare la propria patria una volta caduto il regime. Evento che ci si aspettava potesse avvenire al più presto.

Zeman organizzò due spedizioni per oltre 60 giovani salesiani attraverso il confine tra la Slovacchia e l’Austria. La terza spedizione, alla quale presero parte dei sacerdoti diocesani perseguitati dal regime, fu anche l’ultima: tutti i componenti del gruppo furono arrestati e don Tito finì nelle mani dei militari che lo picchiarono con violenza fino a spaccargli alcuni denti e farlo diventare sordo. Il salesiano riusciva ad accettare le violenze su stesso ma non sui confratelli; prese quindi su di se ogni responsabilità e si incolpò dell’organizzazione delle fughe all’estero.

Seguirono circa due settimane di torture, tra la sofferenza e la continua paura di essere fucilato, tanto che i capelli gli divennero completamente bianchi. È lo stesso beato a raccontarlo in alcune lettere: «Quando mi hanno preso, per me è stata una Via Crucis dal punto di vista psichico e fisico… Nel picchiarmi e nel torturarmi usavano metodi disumani. Per esempio portavano un secchio pieno di liquame di fogna, in esso m’immergevano la testa e me la tenevano dentro finché non cominciavo a soffocare. Mi davano dei forti calci in tutto il corpo, mi picchiavano con qualsiasi oggetto...».

Dopo dieci mesi di detenzione preventiva, si arrivò al processo del 20-22 febbraio 1952. La sentenza fu la condanna a morte per spionaggio, alto tradimento e attraversamento illegale dei confini. La pena però fu commutata in venticinque anni di carcere senza condizionale. Un «miracolo» dissero in molti, mai nella Cecoslovacchia dell’epoca una persona accusata di tali gravi reati veniva imprigionata e non giustiziata.

Zeman fu però bollato con l’acronimo di «m.u.k.l.», cioè «uomo destinato all’eliminazione» e sperimentò la vita durissima nelle carceri e nei campi di lavoro forzato, al fianco di sacerdoti perseguitati, avversari politici e criminali. Fu rinchiuso nella cosiddetta “Torre della Morte” e costretto alla triturazione manuale e senza protezione dell’uranio radioattivo; trascorse lunghi periodi in cella di isolamento, con una razione di cibo circa sei volte inferiore a quella degli altri detenuti. A un controllo medico gli misurarono la radioattività del corpo, trovandola elevatissima. Non ebbe però quasi per nulla accesso alle cure nonostante la crescente compromissione cardiaca, polmonare e neurologica.

Era il 10 marzo 1964, quando, scontata metà della pena, don Tito uscì dal carcere per un periodo di prova in libertà condizionata: poco prima, avevano dovuto trattarlo con ossigenoterapia e i suoi polmoni presentavano vistose macchie. Ritornò a casa ormai irriconoscibile e soffriva con il corpo ma anche con lo spirito per il divieto a esercitare pubblicamente il ministero sacerdotale. Morì l’8 gennaio 1969 per un triplice infarto miocardico connesso ad aritmie. Fu seppellito qualche giorno dopo, tra il freddo e la neve, nel cimitero della natale Vajnory.

Subito si diffuse la fama di santità e di martirio; invece fu solo nel 1991 che un processo di riabilitazione confermò la sua innocenza. «Non fu il primo né l’ultimo dei martiri salesiani, don Tito, colpevole solo di aver professato la sua fede in un periodo in cui vescovi, sacerdoti e laici venivano perseguitati, le scuole cattoliche soppresse e i loro beni confiscati», ha detto il cardinale Amato nella sua omelia di oggi. «Fiaccato nel corpo dalle continue torture durate tutti e dieci gli anni di prigionia, il suo spirito e la sua fede ne uscirono, invece intatti, come il suo amore, immutato e totale, per i giovani e che è aspetto fondamentale dell’apostolato salesiano». Egli si può definire «un martire per le vocazioni», ha affermato il porporato, perché per lui come per Don Bosco «la salvezza dei giovani» era la priorità «a costo della libertà e della vita». 

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