All’acceso dibattito che nei giorni scorsi si è scatenato sulla stampa circa il riconoscimento di San Giovanni XXIII come patrono dell’Esercito italiano si unisce la voce di don Giuseppe Praticò, cancelliere della diocesi di Reggio Calabria-Bova, che – in un lungo articolo pubblicato su Settimananews – offre alcune precisazioni e puntualizzazioni circa l’aspetto canonistico della vicenda.

«Anzitutto – spiega il sacerdote - è doveroso chiarire che la Chiesa ordinariato militare è a tutti gli effetti una Chiesa particolare», dunque «non una sezione della Chiesa universale» bensì «una porzione del popolo di Dio non costituita da un territorio ma da persone, volti e anime», ovvero i militari, «che forma l’immagine della Chiesa universale e ne ha la completezza in quanto ne possiede tutte le proprietà essenziali e tutti gli elementi costitutivi: la Parola, i sacramenti, i doni dello Spirito, il vescovo e la koinonia».

La Chiesa ordinariato militare è «Chiesa di Cristo che, sotto la presidenza del vescovo ordinario militare, con la predicazione del Vangelo e la celebrazione dell’eucaristia, offre il simbolo di quella carità e unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza». «Da questa salvezza devono essere esclusi i fedeli che hanno scelto di servire nelle forze armate?», si domanda Praticò. «Chi siamo noi, o chi è un’associazione come Pax Christi a decidere sulla salvezza delle anime escludendone alcuni o includendone altri? Non siamo e formiamo tutti l’unico popolo di Dio?».

Ne consegue «che la diocesi ordinariato militare, affidata alle cure pastorali di un vescovo coadiuvato dal suo presbiterio non è una circoscrizione unicamente amministrativa della Chiesa universale di cui il vescovo sarebbe un “prefetto ecclesiastico”, ma essenzialmente e costitutivamente una comunità di fedeli, di cui il vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, è il “padre e pastore”». Proprio «in forza di tale paternità che l’ordinario militare (monsignor Santo Marcianò, ndr) ha deciso di dare, attraverso san Giovanni XXIII, ad una porzione del suo gregge un modello da imitare nelle virtù dell’esercizio del loro dovere perché questo sia sempre più e sempre meglio intriso di amore a Dio e al prossimo», afferma don Giuseppe Praticò.

L’ordinario militare è «l’unico competente “senza se e senza ma” in virtù della sua potestà di giurisdizione»; egli «a norma del can. 381 §1, avendo avuto l’affidamento dal parte del romano Pontefice della cura pastorale di quella particolare porzione di popolo di Dio, in essa possiede di diritto tutta la potestà necessaria per l’adempimento del suo ministero: una potestà ordinaria, annessa ipso iure all’ufficio, propria, e immediata, che, nel suo esercizio, non ha bisogno dell’interposizione di altre autorità».

Per Praticò, il vescovo Marcianò ha agito dunque «con sollecitudine, premura pastorale e zelo, così come la sua consacrazione gli impone e l’obbligo del Codice gli rammenta… adoperandosi a promuovere con ogni mezzo la santità dei fedeli ai lui affidati, secondo la vocazione propria di ciascuno».

«L’esercito italiano – prosegue - non può essere, banalmente e semplicisticamente in modo riduttivo, assimilabile all’associazione dei filatelici (detto con tanto rispetto per gli appassionati collezionisti). A norma del diritto i militari, in quanto fedeli battezzati, sono soggetti alla giurisdizione dell’ordinariato militare oggi regolata dalla costituzione Spirituali militum curae». La quale sottolinea che coloro che prestano servizio militare debbono considerarsi «come ministri della sicurezza e della libertà dei popoli, infatti se adempiono il loro dovere rettamente, concorrono anch’essi veramente alla stabilità e alla pace». Ecco, secondo il sacerdote, «il senso alto e profondo» del decretare Papa Roncalli patrono dell’esercito italiano «al di fuori di fuorvianti logiche ideologizzanti un errato conseguimento del bene supremo della pace tra i popoli, animate da inutili faziosità di parte».

Un’altra correzione che l’autore mette in risalto nella sua riflessione riguarda la procedura per giungere al decreto di conferma da parte della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Procedura che, come attesta il documento De Patronis constituendisi, emanato nel 1973 e tuttora in vigore, è stata «rispettosamente osservata e dall’ordinariato militare e dal competente Dicastero della curia romana». Il decreto emanato dalla Congregazione il 17 giugno 2017, «nella sua formulazione e articolazione, rispetta tutti gli elementi previsti per la sua legittimità e per la sua validità. Ad un attento esame, non si riscontra, infatti, alcun errore formale o procedurale che possa renderlo passibile di inefficacia».

Inoltre, aggiunge don Giuseppe Praticò: «È errato affermare e sostenere, senza alcun fondamento giuridico, che, trattandosi di esercito italiano, l’approvazione del patronato di san Giovanni XXIII spettasse di giurisdizione alla Conferenza episcopale italiana e non all’ordinario militare per l’Italia. Non basta, infatti, l’aggettivo qualificativo “italiano” a stabilire che la giurisdizione sia della CEI, poiché, in forza della sua particolare natura, l’ordinariato militare è una peculiare circoscrizione ecclesiastica assimilata alle diocesi in cui la potestà del vescovo non è territoriale ma personale». Pertanto, monsignor Marcianò è «l’autorità ecclesiastica» che «poteva e doveva eleggere e approvare san Giovanni XXIII come patrono dell’esercito italiano, presentando successivamente formale richiesta per il decreto confermativo della Congregazione romana», «senza alcun altro ulteriore intervento della Conferenza episcopale nazionale».

Non esiste dunque alcun «iter illegittimo», tantomeno è stato ignorato il diritto canonico «fino al punto di sottoscrivere un atto privo di forma certa, parzialmente immotivato e alla fine inefficace». Il cancelliere avvalora le sue affermazioni ricordando che un’analoga situazione si è avuta in Spagna nel 1999 «quando san Giovanni Bosco, su proposta dell’ordinario militare spagnolo dell’epoca, fu dichiarato patrono del corpo degli specialisti dell’esercito di quella nazione con atto della Congregazione per il culto e la disciplina dei sacramenti che ha riconosciuto la legittimità della petizione», anche in quel caso «senza dover passare dall’approvazione della Conferenza episcopale locale».

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