Di colpo il tizio accanto a te, in borghese come te, in piedi in platea come te, solo che magari è vestito da prete e ha una Bibbia in mano, prende rumorosamente fiato e attacca a cantare: «Viva Stiffelio! Viva! E, una volta che ti sei ripreso dalla sorpresa, realizzi che per la prima volta nella tua carriera di drogato d’opera, operainomane e operainomade, non sei all’opera: sei dentro l’opera.

Parma, Festival Verdi, teatro Farnese, ieri sera: va in scena, finalmente è il caso di dire, il più atteso, chiacchierato, discusso e pre-stroncato spettacolo di quest’anno: lo Stiffelio «di Graham Vick» (e anche un po’ di Giuseppe Verdi, volendo), che è già entrato nelle cronache e entrerà forse nella storia come «quello con il pubblico in piedi». E qui serve una spiegazione. Il punto è che il Farnese è uno dei luoghi più belli del mondo, ma non è un teatro. Fu concepito per un torneo cavalleresco, le le sue vertiginose gradinate non sono utilizzabili perché troppo ripide, l’acustica precaria. È troppo bello per non usarlo, ma troppo eccentrico per farci delle produzioni «normali». Il Festival, giustamente, gli riserva quelle sperimentali.

Di conseguenza Vick ha deciso che tutta l’azione si sarebbe svolta in platea, per la precisione su quattro piattaforme mobili, con il pubblico libero di girarci intorno e, per usare la formula stampata sui programmi, «determinare così il proprio punto di vista e di ascolto dell’opera». Sono consigliate scarpe comode e, visto che i display dove proiettare il libretto non ci sono, i versi di Francesco Maria Piave sono consultabili sul telefonino, previo caricamento dell’app dedicata.

Naturalmente, appena si è saputo cosa andava tramando Vick, si è scatenato l’inferno. Sui siti dei melomani ci si è messi a gridare al verdicidio. Anziani abbonati hanno protestato perché di restare in piedi per due ore proprio non se la sentivano. Riccardo Muti, di passaggio a Parma, ha aizzato i temibili loggionisti locali «a fare le barricate», salvo poi rettificare e dichiarare la sua stima per Vick. Il quale ha risposto a mezzo Stampa che magari gli spettacoli è meglio vederli, prima di fischiarli. E così via.

Beh, finalmente lo Stiffelio lo si è visto. E i più agée, o i più informati, ne hanno immediatamente riconosciuto il modello, l’Orlando furioso di Ronconi: stesse scene mobili, stesse azioni in contemporanea, stessa possibilità per gli spettatori di «entrare» nella recita e di diventarne, in qualche modo, protagonisti. L’esperienza, in effetti, è eccezionale: una specie di abolizione della quarta parete, dove salta la distanza fra spettacolo e spettatore, e sei accanto a Stiffelio o alla moglie adultera in modo «fisico», ne vedi il sudore e magari ti arriva anche uno spruzzo della loro onesta saliva.

In più Vick ci ha messo un’idea, che è anche una grande idea, anche se non tutti hanno gradito. Stiffelio è una denuncia dell’ipocrisia borghese dell’Ottocento e mette in scena un pastore protestante che perdona dal pulpito la moglie adultera, mentre la famiglia arriva fino a uccidere l’amante pur di nascondere la colpa. All’ingresso del Farnese, ogni spettatore riceveva un badge con il logo stilizzato della famiglia «naturale», le gradinate erano coperte da enormi manifesti del «Family Day» e il coro srotolava striscioni «I maschietti sono maschietti». Insomma, coristi e spettatori diventavano una specie di sentinelle in piedi, di cui dal suo pulpito-pedana Stiffelio denunciava il benpensantismo. C’era persino l’incursione delle Femen a seno nudo. Discutibile, certo, ma efficacissimo.

Resta da dire della bravura di tutti, iniziando dal direttore, Guillermo Garcia Calvo, che con l’orchestra in un angolo ha tenuto sotto controllo tutto, e proseguendo con Coro e Orchestra del Comunale di Bologna. Chapeau anche ai cantanti, citiamo almeno il trio tenore-soprano-baritono, Luciano Ganci, Maria Katzarava e Francesco Landolfi che, in condizioni insolite, non solo hanno cantato bene ma hanno recitato benissimo. E le attese contestazioni? Nessuna, travolte dall’emozione collettiva. Anche perché un Verdi così provocatorio, travolgente, autentico, insomma vero capita di rado di vederlo. Anzi, di viverlo.

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