Una storia di padri e di figli, di costumi dissoluti e di violenza ingorda, di affari sporchi e di aspirazioni mancate. Il patto oscuro che, in Suburra, la serie, da domani disponibile su Netflix per gli abbonati di 190 Paesi, lega i tre giovani protagonisti affonda le radici nei loro traumi familiari. Nelle avventure di tre ragazzi obbligati a seguire destini che non hanno scelto. Come se, alla base del degrado di un intero sistema sociale, ci fosse un germe nato fra le pareti domestiche.

Così, per Aureliano Adami (Alessandro Borghi) (il Numero 8 del film Suburra di cui la serie è prequel) la spinta a delinquere ha a che vedere con il difficile rapporto con un padre che non gli dà fiducia, preferendogli la sorella, più forte e strutturata. Così per Spadino (Giacomo Ferrara) la scalata al mondo criminale è anche il frutto di un matrimonio imposto e rifiutato. Così per Lele (Eduardo Valdarnini), pusher di Roma Nord piombato nell’incubo di un grosso debito, la scelta delinquenziale è anche la risposta all’educazione ricevuta da un padre poliziotto fin troppo affettuoso e condiscendente.

Intorno a loro, all’ombra del Colosseo e della cupola di San Pietro, testimoni impassibili delle lotte per il comando che da sempre avvelenano la capitale, i personaggi, riconoscibili, della nostra attualità. In prima fila il politico di sinistra Amedeo Cinaglia (Filippo Nigro), consigliere comunale deluso dai giochi di partito che ne hanno spento gli ideali e pronto a vendere l’anima in cambio di un pizzico di potere, la potente amministratrice dei beni del Vaticano Sara Monaschi (Claudia Gerini) che usa il ricatto come arma di trattativa e l’implacabile Samurai (Francesco Acquaroli) che tratta con i potenti trascinandoli nel malaffare.

Qualcuno potrebbe risentirsi, Suburra, la serie, basato sul romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, porta in giro per il globo l’immagine di una città corrotta e sanguinaria: «Nella Piovra di Damiano Damiani - ricorda Michele Placido, regista dell’opera con Andrea Molalioli e Giuseppe Capotondi - si parlava di mafia e della Roma che, già a quei tempi, ne era stata contagiata. Si lavorava in Rai e poteva succedere che, durante le riprese, arrivasse la telefonata del funzionario che chiedeva di non girare quella determinata scena. Qui a Netflix la censura non esiste, c’è molta più libertà, sia nel dire sia nel fare».

E poi oggi, dopo Mafia capitale, parlare dei guasti del regime capitolino significa rinverdire la tradizione italiana del cinema civile: «Abbiamo sempre avuto una coscienza civica importante, che appartiene ai registi, ma anche agli scrittori e ai giornalisti. Penso a Petri, a Sciascia, a Fava. In questo senso abbiamo dato lezioni pure al cinema americano, la denuncia fa parte del nostro Dna».

Per Alessandro Borghi la descrizione dei mali che affliggono la città in cui è nato non comporta sorprese: «Non scopro nulla con questa serie, credo sia chiaro che a Roma esistono dinamiche sopra di noi che vanno a influire su come la città è governata e sul rapporto tra essa e i cittadini, perché facciamo tutti, e spesso, degli errori. Suburra prende spunto da fatti realmente accaduti, ma poi la materia viene romanzata, in favore dell’intrattenimento. Mostriamo un decimo di una città che, come tutte, ha delle cose belle, ma anche brutte. Insomma non farei di questa serie un punto di vista assoluto».

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