La Chiesa cattolica in Cina «esiste e funziona». E proprio per facilitare il suo respiro apostolico conviene prendere atto che «il governo in Cina è comunista», che con quel governo bisogna comunque fare i conti, e che il registro più appropriato su cui accordare i rapporti tra la Chiesa e il potere cinese non è quello della «opposizione» e nemmeno quello del «compromesso», bensì quello di un «sano realismo» e di una «reciproca tolleranza». Lo suggerisce il gesuita cinese Joseph Shih, 90 anni, in un’ampia intervista pubblicata sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica e raccolta da padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti italiani, le cui bozze vengono rilette in Vaticano.

Padre Shih parla con cognizione di causa: tutta la sua lunga vita di sacerdote sagace quanto discreto ha incrociato i sentieri, le sofferenze e le anomalie dal cattolicesimo cinese nella Cina Popolare. Proveniente da una famiglia cattolica di Shanghai con dieci figli, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1944, uscito dalla Cina divenuta maoista e ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1957, padre Shih ha insegnato per 35 anni alla Pontificia Università Gregoriana e per 25 anni ha lavorato alla Radio Vaticana, anche come responsabile dei programmi in cinese della Radio del Papa. Adesso trascorre gran parte dell’anno a Shanghai, continuando a seguire in presa diretta le dinamiche e i processi reali che plasmano il vissuto delle comunità cattoliche cinesi nel tempo presente.

L’eclissi dei “villaggi cristiani”

«La vita della Chiesa» racconta padre Shih «è cambiata insieme alla società. I cattolici cinesi vivevano per lo più nelle aree rurali, mentre ora i giovani dei villaggi vanno a cercare lavoro nelle città. Spesso i loro genitori li seguono per prendersi cura dei loro bambini. Così i villaggi si svuotano. Le chiese perdono i loro parrocchiani. I vecchi cattolici sono dispersi». D’altronde, proprio gli sconvolgimenti sociali in atto provocano nuove inquietudini e nuove domande. E secondo padre Shih, non c’è da meravigliarsi che, negli ultimi anni, i fedeli delle varie religioni siano aumentati. Anche il vecchio villaggio cristiano di Zikawei, dove sorgeva la chiesa di Sant’Ignazio – racconta il gesuita novantenne - ora è stato inglobato nel tessuto commerciale di Shanghai, le vecchie case delle famiglie cristiane sono state tutte demolite, ma alle sette messe che si celebrano tra sabato e domenica a Sant’Ignazio la chiesa è sempre piena e tra i nuovi fedeli venuti dalle varie parti del Paese ci sono «molti giovani e intellettuali».

Divisione fomentate e una fede che sa “distinguere”

Nell’intervista, padre Shih delinea in maniera appropriata l’origine e la reale natura delle divisioni tra comunità “ufficiali” e comunità cosiddette “clandestine” che ancora tormentano la Chiesa in Cina. Tale divisione – suggerisce Shih – è soprattutto un effetto della politica religiosa del governo, che impone anche alla Chiesa, come a tutte le altre comunità di fede, i suoi organismi di controllo. Non tutti, nella Chiesa cattolica, accettano questa situazione. Perciò, dal punto di vista del governo, «ci sono due parti nella Chiesa cattolica. Il governo riconosce la parte che accetta le sue leggi e non riconosce l’altra che le respinge». Ma «i cattolici che vivono in Cina - fa notare il gesuita cinese, con un inciso dirimente - «conoscono queste definizioni, e tuttavia sanno distinguere tra la politica religiosa del governo e la propria fede. Per loro, in Cina non c’è che una sola Chiesa, cioè la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. In questa unica Chiesa si trovano due comunità distinte, ciascuna con i suoi vescovi e i suoi sacerdoti. Tra loro ci sono frequenti dispute, che non sono dovute a differenze nella fede, ma che sono piuttosto espressione di conflitti di interesse religioso. Inoltre, dopo gli insistenti appelli di papa Giovanni Paolo II – nota padre Shih - le due parti hanno già cominciato a riconciliarsi».

In contrasto con questi processi di riconciliazione – riconosce il gesuita shanghaiese – ci sono quelli che accentuano in modo esagerato e strumentale la differenza tra la «Chiesa ufficiale» e la «Chiesa clandestina», puntando soprattutto a sabotare il dialogo ripreso di nuovo tra Cina e Santa Sede. Questa contrapposizione, fomentata soprattutto dall’esterno – annota il gesuita cinese «non aiuta affatto la vita e la missione della Chiesa in Cina». Mentre proprio uno sguardo di fede suggerisce anche criteri e modi da seguire nelle relazioni con il governo.

Una Chiesa che non ha il problema di “sfidare” nessuno

Il realismo della fede - fa capire Shih – porta a riconoscere che «il governo cinese è comunista», che questo stato di cose «non cambierà di certo per molto tempo», e che «la Chiesa in Cina deve pur avere qualche relazione con il governo cinese». Un rapporto «di opposizione» - ragiona Shi a partire dalle domande di padre Spadaro - «sarebbe un suicidio». Ma anche la prospettiva di un compromesso compiacente e cedevole appare a Shih inadeguata, perché su tale via «la Chiesa perderebbe la propria identità». La formula suggerita dal gesuita cinese è quella della «reciproca tolleranza». La tolleranza – spiega padre Shih - «è diversa dal compromesso. Il compromesso cede qualche cosa all’altro, fino al grado che l’altro trova soddisfacente. La tolleranza non cede né esige dall’altro che ceda». E visto che la Chiesa cattolica in Cina «esiste e funziona», ciò significa che «in qualche modo la tolleranza viene già sperimentata».

Anche la Santa Sede è chiamata in causa dalle prospettive suggerite da Shih: se vuole facilitare davvero la vita dei cattolici cinesi, essa deve innanzitutto resistere a pressioni e rinfacci di quanti vorrebbero farne una “forza antagonista” nei confronti del governo di Pechino. «Se la Santa Sede si opponesse al governo» annota Shih «la Chiesa in Cina sarebbe costretta a scegliere tra questi due, e sceglierebbe necessariamente la Santa Sede. Così la Chiesa risulterebbe invisa al governo cinese». Benedetto XVI, nella sua Lettera ai cattolici cinesi del 2007, aveva già scritto che in Cina la Chiesa cattolica «non ha la missione di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini Cristo». Dieci anni dopo, padre Shih si augura che i cattolici cinesi possano vivere una vita autenticamente cristiana nella Cina così come è oggi, e per questo auspica che anche la Santa Sede «non sfidi il governo con un ideale troppo alto e irrealistico, il che ci costringerebbe a scegliere tra la Chiesa e il governo cinese». Mentre consiglia ai cattolici cinesi di non dar retta a quelli che fuori dalla Cina intervengono sulle loro vicende e i loro problemi sempre «in maniera incongrua, danneggiando la Chiesa».

Il “caso Ma Daqin”

Nell’intervista rilasciata a padre Spadaro, il gesuita cinese Joseph Shih rilegge coi criteri del «sano realismo» suggerito dal sensus fidei anche la vicenda del vescovo Taddeo Ma Daqin, che lui conosce bene e che gli sta molto a cuore.

Ma Daqin fu ordinato vescovo ausiliare di Shanghai il 7 luglio 2012, con il consenso del Papa e con il riconoscimento del governo cinese, ma alla fine della sua ordinazione episcopale dichiarò pubblicamente l’intenzione di abbandonare gli incarichi fino a quel momento ricoperti negli organismi “patriottici” di cui si serve la politica religiosa governativa, per dedicarsi interamente al ministero pastorale. Quella dichiarazione provocò la reazione immediata degli apparati governativi, che costrinsero Ma Daqin a vivere ritirato presso il seminario di Sheshan, impedendogli di esercitare il suo ministero episcopale. Poi, nel giugno 2016, il vescovo “impedito” di Shanghai pubblicò sul suo sito web un lungo articolo per esprimere il suo pentimento per aver lasciato l’Associazione patriottica. E lo scorso aprile è andato nella provincia di Fujian e ha celebrato pubblicamente la Messa con il vescovo «illegittimo» Zhan Silu, ordinato senza il consenso della Santa Sede. Sui media occidentali sono presto apparsi interventi che bollavano Ma Daqin come un “voltagabbana”. «Io» spiega invece padre Shih «conosco molto bene il vescovo Ma Daqin. Egli non ha fatto un voltafaccia, né si è arreso: credo piuttosto che si sia “risvegliato”. Molti dicono di amare la Cina, ma hanno un’idea astratta del Paese. Amano, forse, la Cina di Confucio o quella di Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek). Per il vescovo Taddeo Ma Daqin, amare la Cina vuol dire amare la Cina concreta, cioè la Cina attuale, la Cina governata dal partito comunista. Poi, egli non crede più che la Chiesa si debba necessariamente opporre al governo cinese; anzi, ha capito che, per poter esistere e agire nella Cina di oggi, la Chiesa deve necessariamente rendersi almeno tollerabile agli occhi del governo. Insomma, mons. Ma Daqin è un vescovo cinese che ha un sano realismo. Il fatto che sia andato a Mindong e che abbia concelebrato con il vescovo “illegittimo” Zhan Silu ha avuto, infatti, lo scopo di una riconciliazione con il governo cinese». E padre Shih si augura «che la Santa Sede lo sostenga e lo lasci provare».

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