«Ho telefonato al premier Gentiloni: la valutazione della maggioranza è che sarebbe opportuna la fiducia». È metà mattina quando le parole del capogruppo alla Camera del Pd, Ettore Rosato, atterrano lievi come una valanga sul Transatlantico di Montecitorio, aprendo una giornata di polemiche. Come già fatto con una decisione anomala nel 2015, per garantire il passaggio dell’Italicum, ancora una volta Pd e maggioranza decidono di apporre la questione di fiducia sulla legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum bis, frutto di un accordo a quattro tra dem, Ap, Forza Italia e Lega. Decisione condivisa con le forze di opposizione che sostengono la legge, e fortemente avversata da quelle che invece da giorni criticano il testo, dal M5S a Mdp: «Siamo in piena emergenza democratica», insorge il candidato premier grillino Luigi Di Maio.

La paura dei voti segreti

Quando, poco prima delle quattro, la ministra dei rapporti col Parlamento, Anna Finocchiaro, formalizza l’annuncio atteso da ore e deciso in Consiglio dei ministri, la sua voce in Aula non si sente, coperta da urla e strepiti. «Abbiamo chiesto una fiducia tecnica per superare i voti segreti», ammette Rosato, memore del tentativo fallito a giugno, quando un accordo sul sistema tedesco che comprendeva anche il M5S saltò al secondo voto segreto. Ora ne erano previsti 120, ognuno una potenziale imboscata: l’unico modo per aggirarli, apporre una fiducia sui primi tre articoli. Si comincia a votare oggi pomeriggio, entro domani sera la Camera dovrebbe licenziare il provvedimento: ammesso però che i franchi tiratori non sfoghino frustrazioni e preoccupazioni nel voto finale, che quasi certamente – se le opposizioni lo chiederanno – sarà a scrutinio segreto. Un’ipotesi remota ma non impossibile, quella di ottenere la fiducia ma vedersi impallinati sul voto del testo, anche se Rosato lo esclude: «Io penso che ce la faremo», predica ottimista. Dopo, il testo si sposterà al Senato, dove potrebbe essere calendarizzato a breve, prima della manovra di bilancio.

«Un atto eversivo»

Già dalla mattina davanti a Montecitorio c’è un drappello di manifestanti, e le proteste continueranno oggi nel centro di Roma: i Cinque stelle danno appuntamento via social per le 13; nel pomeriggio anche la sinistra di Mdp, Civati e Sinistra italiana scenderà in piazza per contestare la scelta del governo che, come molti sottolineano, smentisce se stesso visto che aveva garantito al momento dell’insediamento di non mettere bocca sulla riforma del sistema di voto. «Mettere la fiducia sulla legge elettorale a pochi giorni dallo scioglimento delle Camere è oltre i limiti della democrazia: qui si sta scherzando col fuoco», sbotta Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, gli scissionisti dem che certificano l’uscita dalla maggioranza non votando la fiducia, mentre Pier Luigi Bersani, scuro in volto, abbandona l’Aula parlando di «una questione democratica grossa come una casa». Anche Giuliano Pisapia, all’indomani dello strappo con Mdp, viene descritto da chi gli è vicino in Parlamento come infastidito da una forzatura che complica la nascente operazione di dialogo con il Pd: e gli eletti che si riconoscono in Campo progressista non voteranno la fiducia. Una forzatura che non vedono né Forza Italia – nonostante il capogruppo Brunetta in occasione della fiducia sull’Italicum parlò di «fascismo renziano» - né la Lega: entrambe fanno sapere che non voteranno la fiducia ma garantiranno il loro sì al testo.

La critica di Napolitano

Tra toni esasperati e accuse di «eversione», si distingue la critica dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Mirata al merito della legge: il problema, dice, è l’indicazione del capo politico al momento della presentazione delle liste, una prescrizione «incompatibile con i nostri equilibri costituzionali». La fiducia chiude però ogni possibilità di modifica: vano l’augurio di migliorare la norma attraverso una «serrata discussione» alla Camera.

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