I morti «non si possono contare». L’ammissione delle autorità somale suona come una resa. L’attacco compiuto sabato a Mogadiscio dal gruppo islamista degli Al-Shaabab, anche se la strage non è ancora stata rivendicata, è più di un attentato. Le immagini degli edifici sventrati, le carcasse di auto fumanti, mostrano gli effetti di un «bombardamento» da terra, realizzato con la tecnica dei camion bomba e che ricorda quelli della prima fase dell’Isis in Iraq. Due esplosioni, oltre 230 vittime, più di trecento feriti, corpi ancora sepolti sotto le macerie del Safari Hotel, completamente distrutto. Sono i numeri di una guerra.

Come l’Isis, gli Al-Shaabab, branca somala di Al-Qaeda, affiancano terrorismo, azioni di guerriglia e operazioni militari. Poco più di un mese fa, l’11 settembre, hanno attaccato una base militare a Sud della capitale, con auto kamikaze e combattenti armati di kalashnikov e mitragliatrici leggere che sono penetrati nell’accampamento di soldati somali e alleati e ne hanno trucidati trenta. I jihadisti hanno poi distrutto la stazione di polizia nella vicina cittadina di Beled Hawa, prima di ritirarsi. A gennaio, in un’operazione analoga, erano rimasti uccisi cinquanta militari kenioti, e pochi giorni dopo un attacco kamikaze aveva fatto 28 vittime in un altro hotel di Mogadiscio, il Dayah.

I camion bomba di sabato sono stati però i più potenti in dieci anni di attacchi degli Al-Shaabab, e hanno distrutto «un intero isolato», secondo le testimonianze raccolte dai soccorritori. I paramedici della ong Aamin Ambulance hanno confermato di «non aver mai visto nulla di simile». Il direttore dell’ospedale Madina, il più grande in città, è «rimasto scioccato». Per tutta la giornata di ieri i familiari delle vittime hanno vagato fra le macerie, alle ricerche dei loro corpi. Governo e strutture mediche non sono in grado di stilare un bilancio, anche perché «moltissimi feriti sono in fin vita».

Fra il 2014 e il 2015, a Mosul e a Ramadi, gli islamisti dello Stato islamico avevano usato la stessa strategia per espugnare le città. Attacchi alle forze di sicurezza nelle loro basi, attentati devastanti nel centro, volti a far crollare il morale ai difensori. Gli Al-Shaabab oggi non sono nella stessa posizione di forza, anche perché devono fronteggiare 18 mila militari dell’Unione Africana, mentre i loro combattenti sono stimati al massimo in diecimila. Ma gli sviluppi degli ultimi mesi fanno suonare l’allarme.

Il gruppo ha assorbito la scissione interna - una piccola parte ha giurato fedeltà allo Stato islamico - e si è riorganizzato. Il nuovo emiro Ahmed Omar ha lanciato una duplice campagna, contro le forze africane e contro gli hotel «per occidentali» a Mogadiscio. Gli attentati, sempre più devastanti, mirano a colpire uomini d’affari locali e stranieri, membri del governo, e a stroncare i timidi segnali di ripresa dell’economia nella capitale, che conta su massicci aiuti e investimenti soprattutto da parte della Turchia.

Il presidente Mohammed Abdullahi «Farmajo» Mohammed ha decretato tre giorni di lutto nazionale. Il suo governo, formato soprattutto da ex espatriati come lui (ha vissuto a lungo negli Stati Uniti), controlla in realtà soltanto un quarto del Paese: il Puntland e l’ex Somalia britannica sono retti da potentati locali, gran parte del Sud è in mano agli Al-Shaabab. Ma almeno Mogadiscio e l’area circostante sembravano al sicuro. Due settimane fa la Turchia ha inaugurato la sua più grande base all’estero, una caserma vicino alla capitale, dove saranno addestrati 10 mila soldati somali. Dovrebbe essere il punto di partenza per la stabilizzazione della Somalia. L’attacco di sabato dimostra quanto è ancora lontana.

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