La partita è delicatissima. Di mezzo ci sono la principale rete di telecomunicazione del Paese, gli interessi dell’alleato chiave in un probabile (futuro) governo di larghe intese, i rapporti con la Francia, l’immagine dell’Italia di fronte agli investitori. Non è un caso se in pubblico la linea su Telecom l’ha data il ministro Carlo Calenda, a gestire il dossier è stato Paolo Gentiloni in prima persona.

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Una fonte di governo definisce quello di ieri «il primo passo» verso un assetto neutrale dei cavi dell’ex monopolista pubblico. Il governo ha esitato a varare il decreto che applica per la prima volta il cosiddetto «golden power», i poteri speciali per le aziende strategiche. Calenda le aveva definite prescrizioni «eque» e «non punitive». Sono essenzialmente due. La prima: Tim dovrà dotarsi di una unità organizzativa autonoma dalla casa madre. A dirigerla sarà un funzionario scelto in una terna di nomi indicati dalla presidenza del Consiglio fra i vertici dei servizi segreti. La seconda: in ciascuno dei consigli di amministrazione di Tim, Sparkle e Telsy (queste ultime sono le società che gestiscono i cavi sottomarini e i sistemi di sicurezza) dovrà esserci sempre un consigliere italiano gradito a Palazzo Chigi.

In apparenza sembrano decisioni invasive, di fatto sono ritocchi all’assetto esistente: «Tim prende atto che si tratta di misure in parte già implementate», dice il comunicato dell’azienda. È così. Il vicepresidente Giuseppe Recchi ha già piena responsabilitàsulle attività strategiche. Non solo: in Sparkle e Tesly i consiglieri sono tutti italiani. L’unica novità di rilievo è la creazione della unità organizzativa che risponderà a Recchi. Il difficile viene adesso. Dopo aver subito l’iniziativa del patron di Vivendi Vincent Bolloré - oggi primo azionista di Tim con il 30 per cento - il governo punta ad avere la garanzia di una rete neutrale.

Eppure nonostante la spinta di un pezzo di establishement e del Pd Gentiloni non sembra intenzionato a finanziare l’ingresso nel capitale, né direttamente né indirettamente attraverso la Cassa depositi e prestiti. «Credo che vadano separate le due società, dopodiché la proprietà può essere anche la stessa», aveva detto Calenda domenica. «Ho scritto all’Autorità per le comunicazioni chiedendo di studiare, come ha fatto l’Inghilterra, benefici e rischi». Open Fiber - il concorrente pubblico di Tim sulla rete a fibra ottica - non riesce a far decollare il piano industriale, e per questo c’è chi (su tutti il presidente Franco Bassanini) spinge per l’integrazione con Tim. C’è di più: per Vivendi la separazione societaria della rete dalle attività di Tim è complessa e fioriera di rischi a causa dell’alto debito.

Il numero uno Enel Francesco Starace, che pure insieme a Matteo Renzi ha dato i battesimi ad Open Fiber, è concentrato sul piano industriale del gruppo elettrico e non vuole investire più un solo euro nell’avventura. Eppure in Europa quasi tutte le reti di telecomunicazione sono unificate e rese neutrali da un soggetto pubblico. Insomma, la strada è segnata, come arrivarci è ancora un’incognita.

Sullo sfondo c’è poi un grande non detto: quello dei rapporti Vivendi-Mediaset, promessa sposa di Tim per dare a quest’ultima un futuro oltre la sempre meno redditizia attività di telecomunicazioni. Nei palazzi tutti sanno che il tempo scorre, e dopo le elezioni sarebbe imbarazzante gestire quelle nozze, soprattutto se nel frattempo Berlusconi dovesse diventare decisivo ad una maggioranza di larghe intese. «Un passo alla volta», insistono a Palazzo Chigi. Alternative al momento non ce ne sono.

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