Da qualche giorno si è tornati a sparare anche di mattina nel Donbass, quel fazzoletto di terra dell’Ucraina orientale conteso dai russi delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. La linea di contatto che separa le parti in guerra - stessa lingua, stesse abitudini, stesse reazioni – corre attraverso paesi come Kurakhova, Advinka, Debalt’seve, Starij Aidar, Mikolaivka, tutti piuttosto simili prima e tutti ugualmente disastrati oggi. «Mi sorprendo ogni volta della resilienza di queste persone – racconta uno dei membri della Special Monitoring Mission (Smm) dell’Osce, da poco tornato da lì –. Quelli che sono rimasti vivono quasi come nulla fosse, vanno al mercato, portano i figli a scuola, si vedono la sera per festeggiare un compleanno, e se a un certo punto c’è da scappare, scappano». Ma da qualche settimana la situazione è di nuovo peggiorata: le «undetermined explosions», esplosioni di natura non accertabile, prima cominciavano solo dopo le cinque del pomeriggio, adesso possono arrivare fino a 150 al giorno, iniziano presto e non finiscono mai.

Ma finché ci sono le violazioni come si fa a parlare di pace? Come si fa a dire che l’accordo di Minsk è «in via di implementazione?» Per essere una guerra, quella del Donbass è piuttosto strana: i vertici militari delle fazioni in lotta - Ucraina da una parte, Lugansk e Donetsk dall’altra, per interposta Russia - si parlano regolarmente in quello che in gergo si chiama «open channel», canale di comunicazione aperto. «Se decidono che non si spara, non si spara - dice ancora l’osservatore Osce - sembra che ci siano sempre le condizioni per una tregua definitiva, i territori sono molto ben controllati. Ma è una guerra molto politicizzata. E ora la situazione si sta di nuovo infiammando».

La guerra del Donbass è tecnicamente una guerra ibrida: un po’ si combatte sul terreno, un po’ a colpi di propaganda e di cyber attacchi, tanto che alcuni analisti la considerano una sorta di palestra-laboratorio in cui Mosca fa dei test pensando ad altri scacchieri. A Kiev, del resto, si sparano provvedimenti finalizzati a restringere il predominio linguistico russo: alla fine di settembre la Rada, il parlamento ucraino, ha licenziato una misura secondo cui, dal 2020, gli insegnamenti scolastici - attualmente svolti in più lingue - saranno esclusivamente in ucraino. Secondo i dati più recenti in Ucraina ci sono attualmente 400 mila bambini che appartengono a minoranze linguistiche. Le reazioni più dure sono venute, oltre che dalla Russia, da Romania e Ungheria: «Non entreranno mai in Europa con questa legge», hanno tuonato a Budapest. E se per il direttore del «Kiev Post», l’americano Brian Bonner, «alla fine la lingua che prevarrà in Ucraina sarà l’inglese», Volodymyr Yermolenko, giornalista ucraino di «Hrodmadske», uno show di approfondimento domenicale, riconosce che «la maggioranza della popolazione, in particolare delle generazioni più anziane, è completamente russofona, e la cosa rappresenta un problema, non si può pensare di escluderla completamente dal dibattito».

I russi rispondono con la loro narrativa, che secondo Roman Shutov - direttore di Detector Media, un gruppo attivo nella decostruzione della propaganda del Cremlino - usa sempre gli stessi ingredienti: «Il presidente Poroshenko fa affari con Putin; i generali ucraini lavorano per i russi (come dimostrerebbe l’elevato numero di perdite); l’Ovest non vi aiuta, siete da soli contro la Russia e non vincerete mai; le sanzioni economiche hanno colpito solo l’Ue». Come rispondono gli ucraini? «La strada che abbiamo scelto - dice Yevhen Fedchenko, condirettore di “Stop-Fake” - è quella di dar voce ai militari al fronte, raccontare i battaglioni di volontari, costruire una narrativa dei nostri eroi». Il problema è che molti media ucraini - sottolinea il rapporto Kremlin Influence Index 2017 - sono di proprietà di oligarchi vicini al Cremlino, e anche se le persone non si fidano di quanto ascoltano sui media filo russi, l’effetto è quello di creare insicurezza e ansia nella popolazione.

Una popolazione che a detta degli stessi parlamentari ucraini è spesso sfiduciata nella capacità di questa classe dirigente di mettere un freno alla corruzione e di far ripartire l’economia secondo un concetto che non ricalchi logiche sovietiche. A ciò si aggiunge un certo senso di isolamento, percepito anche dalla classe politica. Sono lontani i tempi in cui a Kiev arrivavano John Kerry, Jo Biden o Hillary Clinton: «L’amministrazione Obama era molto più presente di quella attuale», dice Hanna Hopko, capo della commissione affari esteri della Rada. E anche se l’attuale inviato Usa per l’Ucraina Kurt Volker è in realtà piuttosto attivo, la percezione che a Washington qualcosa sia cambiato è abbastanza condivisa. Anche Bruxelles si è fatta più lontana: «L’ultima volta che Federica Mogherini è venuta in Ucraina era il 2015». Chissà se tornando la troverebbe cambiata.

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