Non è giusto che alcuni portino i pesi mentre altri restano «arroccati a difesa di posizioni privilegiate». Non siano solo alcuni paesi a fare sacrifici. Papa Francesco lo afferma incontrando i partecipanti al «Dialogo (Re)Thinking Europe», organizzato in Vaticano. Il Pontefice lancia un appello: l’Ue sia «un’unica comunità che si sostiene», soprattutto nelle crisi. Come quella dei migranti, che vanno accolti; allo stesso tempo, loro sono chiamati a conoscere e assimilare cultura e tradizioni di chi li riceve.

Questo pomeriggio, 28 ottobre, presso l’«Aula del Sinodo», il Vescovo di Roma parla ai partecipanti al «Dialogo (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del Progetto Europeo» (in corso dal 27 al 29 ottobre 2017), organizzato dalla Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea (Comece), in collaborazione con la Segreteria di Stato. Ci sono rappresentanti della Chiesa e leader politici europei di alto livello. Prima dell’udienza il Papa ha avuto un colloquio con Franz Timmermans, primo vice-presidente della Commissione europea, Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, e Mairead McGuinness, primo vice-presidente del Parlamento europeo.

Per Papa Bergoglio, «parlare di un contributo cristiano al futuro del continente significa anzitutto interrogarsi sul nostro compito come cristiani oggi».

Uno dei «valori fondamentali che il cristianesimo ha portato» è «il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente».

Quindi il primo, «e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone».

Avverte il Papa: «Purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà». Così «il concreto della persona è ridotto a un principio astratto, più comodo e tranquillizzante».

Riconoscere che «l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità». Questo è «il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa»: la riscoperta «del senso di appartenenza a una comunità. Non a caso i Padri fondatori del progetto europeo scelsero proprio tale parola per identificare il nuovo soggetto politico».

Il Pontefice cita poi la famiglia come «prima comunità». Allo stesso tempo, «una comunità civile è viva se sa essere aperta, se sa accogliere la diversità e le doti di ciascuno e nello stesso tempo se sa generare nuove vite, come pure sviluppo, lavoro, innovazione e cultura».

Persona e comunità sono «le fondamenta dell’Europa che come cristiani vogliamo e possiamo contribuire a costruire». E i «mattoni di tale edificio si chiamano: dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace».

E questo incoraggia «a considerare il ruolo positivo e costruttivo che in generale la religione possiede nell’edificazione della società». Il Papa denuncia «un certo pregiudizio laicista, ancora in auge, non in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale». Ne consegue l’instaurazione del «predominio di un certo pensiero unico, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali».

Il Papa sottolinea che favorire il dialogo – qualunque dialogo – è una responsabilità «basilare della politica». Ma «purtroppo, si nota troppo spesso come essa si trasformi piuttosto in sede di scontro fra forze contrastanti. Alla voce del dialogo si sostituiscono le urla delle rivendicazioni. Da più parti si ha la sensazione che il bene comune non sia più l’obiettivo primario perseguito». Così «trovano terreno fertile in molti Paesi le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico». Al dialogo si sostituisce, o «una contrapposizione sterile, che può anche mettere in pericolo la convivenza civile, o un’egemonia del potere politico che ingabbia e impedisce una vera vita democratica. In un caso si distruggono i ponti e nell’altro si costruiscono muri. E oggi - aggiunge senza leggere il testo scritto - l’Europa conosce ambedue».

Responsabilità comune «dei leader è favorire un’Europa che sia una comunità inclusiva, libera da un fraintendimento di fondo: inclusione non è sinonimo di appiattimento indifferenziato». In questa prospettiva, «i migranti sono una risorsa più che un peso. Soprattutto davanti al dramma dei profughi e dei rifugiati, non ci si può dimenticare il fatto di essere di fronte a delle persone, le quali non possono essere scelte o scartate a proprio piacimento, secondo logiche politiche, economiche o perfino religiose».

Tuttavia, ciò non è in contrasto «con il dovere di ogni autorità di governo di gestire la questione migratoria» con prudenza, che deve «tener conto tanto della necessità di avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare pienamente coloro che giungono nel paese a livello sociale, economico e politico». Non si può pensare che il fenomeno migratorio «sia un processo indiscriminato e senza regole, ma non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura». Da parte loro, i migranti non devono «tralasciare l’onere grave di conoscere, rispettare e anche assimilare la cultura e le tradizioni della nazione che li accoglie».

Bisogna «adoperarsi per una comunità inclusiva», che significa «edificare uno spazio di solidarietà». Essere comunità «implica infatti che ci si sostenga a vicenda e dunque che non possono essere solo alcuni a portare pesi e compiere sacrifici straordinari, mentre altri rimangono arroccati a difesa di posizioni privilegiate». Un’Unione Europea che, nell’affrontare le sue crisi, «non riscoprisse il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta – e non un insieme di piccoli gruppi d’interesse – perderebbe non solo una delle sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi opportunità per il suo avvenire».

La solidarietà - parola che molte volte «si vuole scacciare dal dizionario», commenta a braccio - «non può che essere la linfa vitale di una comunità viva e matura».

Infine, l’impegno dei cristiani in Europa «deve costituire una promessa di pace». Questo non è «il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace».

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