Con la battaglia di Raqqa terminata dopo mesi una quindicina di giorni fa, le forze arabo-curde con l’appoggio americano hanno sconfitto i combattenti del Califfato. Si è così riaperto in Occidente il dibattito sul pericolo dei foreign fighter. Torneranno in Europa ? Faranno attentati e rappresaglie? Anche in Italia questa prospettiva desta preoccupazione anche se il nostro Paese conta un numero esiguo di militanti jihadisti arruolatisi nell’esercito delle bandiere nere. È utile fare qualche riflessione soprattutto alla luce di quanto avvenuto ieri a New York.

In primo luogo l’eventuale ritorno dei foreign fighter va visto nel drammatico contesto di una disfatta: a Raqqa, come già a Mosul, i combattenti stranieri sono stati per mesi e mesi sotto i bombardamenti americani mentre dovevano contenere l’avanzata delle milizie scelte di curdi e siriani. Il numero dei sopravvissuti e di coloro che sono riusciti a fuggire non dovrebbe essere elevato; in ogni caso stiamo parlando di un esercito in rotta, disorganizzato, dove l’obiettivo primario sembra essere quello di salvare la pelle.

Le possibilità di rompere l’accerchiamento e far ritorno in Occidente non sono molte. Più probabile è l’ipotesi che in tanti cerchino rifugio negli ultimi lembi di territorio ancora in mano al Califfato o che individualmente si indirizzino verso la valle della Bekaa e in Libano visto che i corridoi con la Turchia sembrano chiusi e i Paesi confinanti sono assolutamente non ospitali.

È comunque verosimile che una quota di combattenti torni in Europa, nei Paesi di origine - in prevalenza Francia, Belgio, Inghilterra - ovviamente senza armi e con una rete organizzativa svanita a meno che, nei luoghi di partenza, non abbia resistito una qualche struttura di supporto.

Il pericolo reale non riguarda perciò chi arriverà, ma coloro che sono rimasti e che non hanno perso i legami organizzativi e logistici con altre realtà radicali. L’esperienza italiana del terrorismo degli Anni Settanta ha ormai consolidato un principio: si ricostruisce una struttura combattente solo da ciò che rimane, fosse anche un piccolo residuo di militanti. In questi casi diventa un propellente esplosivo la frustrazione di chi, per varie ragioni, non ha potuto partecipare in prima persona alle fasi decisive dello scontro, o di chi ha mancato l’appuntamento con la propria redenzione pur attribuendosi gli stessi meriti e le stesse capacità di chi invece ha combattuto ed è stato poi sconfitto.

La disfatta totale del Califfato perciò pare imminente. Le conseguenze: l’intervenuta assenza del riferimento statuale non costituirà soltanto una grave perdita simbolica ma provocherà nell’organizzazione dei terroristi islamici un grave scompaginamento.

Tuttavia, il pericolo di attentati nel breve periodo non scemerà e si concentrerà in capo ai «lupi solitari» o a cellule improvvisate composte anche da reduci dai campi di battaglia. È mia convinzione che i protagonisti di futuri attacchi saranno dunque i «combattenti che non hanno combattuto»: il loro livello militare non elevato sarà compensato dall’ estrema determinazione di mostrarsi alla pari con chi, partito, si era arruolato nelle file dell’Isis. E poi, come a Nizza e a Berlino, basta un camion o un Suv per commettere una strage.

I pericoli per l’Italia sono inferiori a quelli di altri Paesi ad alta presenza di foreign fighter, ma esistono, e si riferiscono a radicalizzazioni individuali e a possibili obiettivi di alto impatto simbolico, il Vaticano o installazioni legate agli Stati Uniti.

Il «reducismo», è già accaduto in altri contesti, è destinato a sdrucirsi alimentando il circuito della criminalità comune da cui peraltro i foreign fighter prevalentemente provenivano.

I commenti dei lettori