«Non è un caso che abbia scelto gli Stati Uniti» ci tiene subito a far sapere Luigi Di Maio: «Non è un caso che abbia scelto proprio questa meta come primo viaggio da candidato premier del M5S». C’è un prima e ci sarà un dopo nella politica estera in via di definizione nel Movimento. In un’estrema sintesi: più Stati Uniti meno Russia (e Venezuela). Perché in questa trasvolata atlantica non c’è soltanto lo scontato desiderio di accreditarsi e cercare una vetrina, ma c’è anche voglia di fare chiarezza, di ridisegnare il volto internazionale del M5S. Perché nell’anarchia in cui spesso è stata lasciata, non si capisce bene la direzione verso cui tende la politica estera, rimasta in balia di troppe ombre. «Basta con questa storia della Russia e che siamo alla mercé di Putin - ha detto Di Maio nelle riunioni preliminari al viaggio - È una storia che non sta in piedi e che ci fa solo del male».

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Mr Di Maio va a Washington, infatti, mica a Mosca. Sbarcato nella capitale americana, ieri sera è stato a cena con l’ambasciatore Armando Varricchio accompagnato dal capo della comunicazione Rocco Casalino e dal consigliere politico Vincenzo Spadafora, a cui si deve molto della ribalta internazionale del candidato premier del M5S. Proprio come una fiaba di Frank Capra: il ragazzo di Pomigliano in cinque anni è passato dall’asfalto della strada dell’attivismo al pavimento lucido dei palazzi del potere globale. Di Maio è l’atlantista del gruppo ma sa benissimo che tra i grillini a giocare con la sponda russa sono stati in diversi. Alessandro Di Battista, il senatore Vito Petrocelli e soprattutto Manlio Di Stefano. Le sue perplessità per queste simpatie sono aumentate nel corso di questi anni di presunti condizionamenti elettorali in cui il M5S è stato associato a tutte le forze populiste e antisistema europee tenute in gran considerazione da Mosca. «Ricordo a tutti che la prima visita di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio dopo il nostro inaspettato successo nel 2013 fu all’ambasciata americana a Roma». Il ragionamento che fa Di Maio è semplice: «Siamo occidentali e il nostro più grande alleato in Occidente sono gli Stati Uniti», se c’è un interesse della Russia «è da parte loro verso di noi». «Il M5S vuole solo fare gli interessi commerciali dell’Italia. Ecco perché siamo per togliere le sanzioni a Mosca».

Diverso è il discorso sulla Nato. Nel programma del M5S cucito addosso alle teorie più radicali di Di Stefano c’è scritto di voler «ridiscutere la partecipazione italiana nell’Alleanza». Vorrebbe dire strappare un sorriso a Vladimir Putin, insofferente alla presenza militare ai confini del suo impero. Per Di Maio la questione deve essere calibrata meglio. All’indomani della sua incoronazione, sulla Nato rispose così ai giornalisti stranieri: «Non siamo disponibili a rifinanziare il programma militare con altri 14 miliardi di euro». Un messaggio al presidente Trump che ancora avanza questa richiesta agli alleati? Un altro favore a Putin? Di Maio coglierà l’occasione di questo viaggio per chiarire che il M5S non accetterà di mettere più soldi, come vuole Trump, ma che «non è vero che vogliamo bloccare i finanziamenti alle missioni».

Insomma, siamo a una fase di tentata maturazione del pensiero politico grillino anche sullo scacchiere globale. Ora il M5S ha un leader dichiarato, «e una sintesi va trovata» confida Di Maio ai suoi. Basta con iniziative individuali e gaffe: come le dichiarazioni amichevoli sul Venezuela di Maduro della senatrice Ornella Bertorotta e ancora la disponibilità con i russi, considerata a tratti eccessiva, di Di Stefano, responsabile Esteri di fatto esautorato. Il candidato premier vuole una sorta di normalizzazione e la tappa a Washington serve a questo. A rassicurare, a provare a mostrare cos’è il M5S «e a spiegare che non siamo solo quello che raccontano». Ecco perché al di là dei colloqui a Capitol Hill con parlamentari repubblicani e democratici (il leader dei libertari Rand Paul è stato ferito da un vicino e l’incontro potrebbe saltare), è importante, agli occhi Di Maio e dei suoi consiglieri, l’appuntamento al Dipartimento di Stato. È un primo fondamentale approccio con l’amministrazione Usa, con gli ambienti più vicini a Trump verso il quale il grillino non nutre pregiudizi, «anche se - sostiene - restano gli stessi dubbi di tutti sulla sua politica energetica». Pure Trump non se la passa bene quanto a sospetti sulle manovre russe, ben più pesanti di quelli sugli ammiccamenti ai 5 Stelle. E anche se in Italia i rapporti del M5S con i giornalisti sono ai livelli del presidente Usa, Di Maio chiuderà il suo viaggio nella sede del «Washington Post» che di Russiagate e scoop ne sa qualcosa.

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