Martino Gamper, lei si considera un artista o un designer?

«Un designer che usa un approccio artistico».

In che senso?

«Sviluppo le mie idee e non quello che mi viene commissionato. Un artista cerca di creare un suo mondo».

Lei ha studiato scultura e design, prima a Vienna e poi a Londra, al Royal College of Art. Nel frattempo ha lavorato a Milano: è così?

«Sì, con Matteo Thun».

Perché è andato a vivere a Londra?

«Parliamo della fine degli Anni 90. A Londra circolavano le idee e le persone più interessanti in Europa o, almeno, questa era la sensazione. La musica era la parte più importante, ma era un fiorire di arti».

Lei è stato allievo di Ron Arad e, prima, a Vienna, di Michelangelo Pistoletto. Cosa le hanno insegnato?

«Michelangelo stava lavorando al suo Progetto Arte, che per lui era un modo di estendere la pratica dell’arte contemporanea. La sua idea era che non tutti gli artisti possono diventare famosi in quanto tali. E allora perché non occuparsi anche di altri settori come l’architettura, il design, la moda o la musica?».

E Ron Arad?

«Ron era interessato a farci sviluppare un’individualità precisa in modo da renderci indipendenti dalle commissioni. E aveva anche molta attenzione per i materiali».

Lei da dove proviene?

«Sono di Merano e ho fatto un classico apprendistato come falegname a 14 anni. Era interessante lavorare con un maestro e andare a scuola».

Che cosa le ha lasciato Merano?

«Abilità e capacità manuale. Merano è un misto di vecchio mondo e recente passato, case alpine tradizionali e influenza viennese della fine del XIX secolo e anche architettura razionalista italiana».

Come ha iniziato?

«A 19 anni ho concluso il mio apprendistato e volevo un orizzonte più ampio. A quel tempo scalavo e dalle cime vedevo che c’erano tanti posti dove andare. Comprai un biglietto aereo e per due anni girai il mondo. Andai in America per imparare l’inglese e mi sistemai presso una famiglia in Pennsylvania. Poi viaggiai negli States, in Messico, Belize, Guatemala, Hawaii, Nuova Zelanda, Australia, Filippine e Thailandia. Il mio progetto era andare in India e scalare l’Himalaya, ma dopo due anni venne a trovarmi mia sorella in Thailandia, forse mandata dai nostri genitori, e mi riportò a casa. A quel punto sapevo di potermi sottrarre alle regole del mio ambiente e questo mi diede il coraggio per cercare la mia strada: così andai a studiare a Vienna».

Lei è diventato famoso con la mostra «100 Chairs in 100 Days» (100 sedie in 100 giorni), che debuttò a Londra nel 2007. Di che si tratta?

«All’università sperimentavo in continuazione, la mia tesi fu sugli angoli delle stanze. Poi iniziai a raccogliere sedie rotte o abbandonate. Fin da bambino mi piaceva riparare e far rivivere gli oggetti. All’inizio realizzai nuove sedie con quelle vecchie, poi decisi di essere più metodico e di creare una storia. Così ne feci una al giorno, per un anno, tutte diverse».

E adesso dove sono?

«Appartengono a un collezionista milanese, ma ho posto la condizione che le sedie restino insieme e vengano esposte. Al momento sono dirette in Australia. A dire la verità sono 99 e a ogni nuova esposizione ne faccio una nuova e tengo vivo il progetto».

Lei è ossessionato dalle sedie?

«Una leggera ossessione. Per me era importante capire cosa poteva diventare una sedia, mescolando stili e materiali».

Le sedie sono state un’ossesione per designer famosi come Giò Ponti, Carlo Mollino, Jean Prouvé e tanti altri. Qual è il punto? Trovare la sedia perfetta?

«Non c’è un altro oggetto così vicino al nostro corpo e nato per sostenerci. Il tavolo è un’altra cosa e il letto anche. È più privato. Ogni giorno usiamo una sedia per lavorare, mangiare, sederci e anche pensare».

Ha trovato la sedia che per lei rappresenta la perfezione?

«Non esiste. Con le 100 sedie volevo vedere quante riuscivo a crearne una diversa dall’altra».

Che cos’altro fa?

«Ho uno studio piccolo: cinque persone, di cui la metà impiegata nel laboratorio dove realizziamo i pezzi. Lavoro anche con degli artigiani, per esempio in Italia».

E a cosa? Tavoli, divani, librerie?

«Progetto vetri, ceramiche, cucine, esposizioni, letti. Non solo case, anche ristoranti, vetrine. L’unica condizione è che si tratti di qualcosa che metta alla prova la mia creatività».

Di cosa si occupa ora?

«Lavoro a una monografia dedicata al mio lavoro. Sto cercando di mettere insieme le cose che ho fatto e fare il punto. Ho anche in cantiere una mostra intitolata “Vasum”. I vasi sono fatti usando qualsiasi materiale, forma e processo. Intendo creare da 500 a mille vasi, tutti diversi».

Qual è la sua ambizione?

«Continuare a realizzare progetti che esplorano i limiti. Mi piace anche fare il curatore di mostre, come ho fatto alla Pinacoteca Agnelli di Torino e alla Serpentine Gallery di Londra. Era una mostra sulla storia del design, ma anche sul design anonimo, quando non sappiamo chi c’è dietro a un oggetto».

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