Papa Francesco è allarmato. Lo testimonia, al di là della ferma volontà di presiedere la Preghiera per il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo convocata lo scorso 23 novembre da Solidarity with South Sudan – rete che raccoglie una serie di congregazioni religiose presenti nel Paese – la voce con la quale ha pronunciato ieri sera l’omelia in una Basilica di San Pietro stracolma. Il tono sommesso, il volto affranto, sembravano sottolineare con il linguaggio del corpo, il profondo turbamento per le terribili notizie che giungono dai due Paesi ormai da anni contraddistinti da scontri e fughe bibliche. Se la situazione in Sud Sudan, come alcuni flebili segnali lasciavano sperare nei primi mesi di quest’anno, si fosse almeno parzialmente stabilizzata, lo scorso ottobre Francesco sarebbe giunto a Juba, capitale del Paese, accompagnato dall’arcivescovo di Canterbury Justin Welby (sono molti gli anglicani sud sudanesi). La recrudescenza degli scontri, invece, ha costretto la Santa Sede, nel maggio scorso, a rinviare il progetto.

Staccatosi nel 2011 dal Sudan a seguito di un referendum che chiedeva l’indipendenza della zona meridionale a fortissima maggioranza cristiana, il Sud Sudan, il più giovane Stato africano, è entrato dal 2013 nel vortice della guerra civile e non riesce più a uscirne. Da quando le truppe leali al presidente, Salva Kiiri, e le milizie dell’ex vice-presidente Riech Machar hanno cominciato a fronteggiarsi senza risparmio di colpi, sono morte 300 mila persone mentre a milioni hanno lasciato il Paese o si sono spostati in altre zone interne per sfuggire agli scontri. A far da cornice a una situazione drammatica, una carestia spaventosa che, come ripetono da tempo molti osservatori, è in gran parte causata dall’impossibilità di coltivare i campi e occuparsi del bestiame a causa del conflitto. Secondo le statistiche più accreditate, oggi, circa 7 dei 12 milioni di abitanti, soffrono la fame.

A margine della preghiera, Vatican Insider ha raccolto la voce di padre Alex Lodiong Sakor, un sacerdote della diocesi di Yei, membro di Solidarity with South Sudan.

«Il Papa ovviamente era stato invitato ma non speravamo che addirittura potesse prendere parte a questo incontro. Sono quindi estremamente soddisfatto perché Francesco ha fortemente voluto essere qui e per la vicinanza che lui dimostra da sempre per il nostro Paese. Quando preghiamo non chiediamo al Signore di fare al posto nostro, ma di darci la forza per agire bene e con coraggio. La chiesa universale, oggi più che mai, è con noi. La situazione in Sud Sudan è drammatica perché una grande parte della popolazione è ora fuori dal Paese o dalle proprie regioni. Al momento sono 2 milioni i fuorusciti dal Sud Sudan mentre almeno altri 2 milioni sono sfollati internamente. Le famiglie non sono in grado di mandare i propri bambini a scuola, la gente mangia una volta sola al giorno. Purtroppo, quindi, non ci sono buone notizie al momento. Speriamo molto nelle iniziative che si stanno prendendo per rivitalizzare il dialogo di pace».

A quali fa riferimento?

«Intanto quella di ieri in Vaticano: sono certo che il presidente e le opposizioni siano stati informati e ne trarranno, spero, le dovute conseguenze. Poi ci sono vari altri sforzi portati avanti da organismi dell’area. Al momento le principali istituzioni che stanno cercando di far incontrare i due leader e le due fazioni sono il Regional Block/Igad (Intergovernamental Authority for Development), la cosiddetta Trojka (Usa, Uk, Norvegia) e, costantemente, le Chiese. La conferenza episcopale sta facendo ogni sforzo perché i due leader si parlino (Riech Machar, l’ex vicepresidente ora leader dell’opposizione si trova in esilio in Sud Africa, ndr) e tornino a collaborare per il bene del popolo. La scorsa settimana i vescovi cattolici sono stati ricevuti dal presidente Salva Kiiri e hanno dichiarato che l’incontro è stato molto cordiale e positivo, il presidente si è detto disponibile a favorire una mediazione. Ciò lascia sperare che si possa aprire una nuova stagione di collaborazione e dialogo».

Nel 2011 l’indipendenza: c’è chi comincia a pentirsi di aver creato un nuovo Stato dopo tanti anni di guerra civile?

«Direi proprio di no. La gente non si è mai pentita di essere indipendente. Certo, siamo molto addolorati di essere finiti noi stessi in una situazione simile a quella da cui provenivamo. Ma la divisione dal nord era ed è il desiderio della stragrande maggioranza. Ora dobbiamo trovare le forze per uscire da questa terribile situazione».

Il presidente ha convocato un dialogo nazionale…

«Sì, il dialogo sta andando avanti. Il problema è che non ci sono i leader del fronte dell’opposizione. La Commissione per il dialogo ha chiesto più volte a Machar di rientrare ma lui sembra non volerne sapere. Se non dialogano le due fazioni in lotta, il rischio è che non si giunga a nulla di significativo.

Vatican Insider ha anche incontrato l’ambasciatore del Sud Sudan presso lo Stato Italiano, Ajing Adiang Marik. Eccellenza, continuano ad arrivare brutte notizie dal Sud Sudan...

«Io sono fiducioso, il dialogo nazionale sta andando avanti e stiamo coinvolgendo tutte le componenti della società per giungere a un accordo e discutere assieme le radici dei nostri problemi. Vi posso assicurare che la situazione è migliorata rispetto al 2015 o al 2016, la gente sta tornando a casa».

Sì, ma l’opposizione non partecipa...

«In realtà molti esponenti delle opposizioni stanno prendendo parte ai lavori, la maggioranza sta rispondendo. Il problema resta Machar che, sebbene invitato a rientrare, non sembra interessato alla pace perché ha una sua agenda. La maggioranza del popolo ne ha abbastanza di guerra ma lui non si muove».

L’incontro di oggi ha anche una valenza politica?

«Certo che sì, il Papa ha lanciato un grande messaggio e un richiamo a noi e alla comunità internazionale. Il ruolo della Chiesa è per noi fondamentale così come quello di altre religioni. Credo che questo evento e il discorso del Papa rappresentino un grandissimo incoraggiamento e una spinta a far ripartire il dialogo per il bene di tutti».

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