L’Isis individua nei sufi, la corrente più mistica e tollerante dell’islam, i «nuovi sciiti», i miscredenti da massacrare per allargare il conflitto settario cominciato con le stragi di cristiani, trovare nuovi consensi nelle fasce più conservatrici delle masse sunnite e aprire un nuovo fronte contro il governo di Abdel Fatah al-Sisi.
Il generale è arrivato al potere, quattro anni fa, con la promessa di «sradicare» il terrorismo e porre le basi dello sviluppo economico su uno Stato sicuro ed efficiente, dopo il caos della Primavera araba. Ma il punto più importante del suo programma, e più consono al suo curriculum, sta diventando un tallone d’Achille e potrebbe avere ripercussioni sulla sua rielezione alle prossime presidenziali, nel marzo del 2018.
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Il punto critico è il Sinai, una penisola di 61 mila chilometri quadrati, come Piemonte, Lombardia e Veneto. Circa un decimo è sotto il controllo parziale del Wilaya Sinai, provincia egiziana del Califfato. È una striscia di territorio lungo il confine con Israele, che scende dai monti Eilat fino alla pianura costiera attorno ad Al-Arish.
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Dagli accordi di pace fra Egitto e Israele di Camp David, alla fine degli Anni Settanta, l’area era smilitarizzata e le tribù beduine, che vivono su tutti i due lati del confine, si sono abituate a una condizione di semi-anarchia, con discreti introiti che derivano dal contrabbando.
In questa situazione si sono inseriti i gruppi jihadisti, nel disordine seguito alla caduta di Mubarak nel gennaio 2011. Il più potente, Ansar Bayt al-Maqdis, nel novembre del 2014 ha giurato fedeltà al califfo Abu Bakr al-Baghdadi. I jihadisti hanno stretto un’alleanza con alcuni elementi delle tribù beduine Tarabin e Sawarka. I Tarabin controllano le montagne verso la frontiera con Israele, i Sawarka la zona della città di Al-Arish. Qui le cellule dell’Isis hanno condotto una «pulizia etnica» nei confronti delle famiglie copte culminata all’inizio di quest’anno con esecuzioni e assalti alle chiese, fino alle stragi nel Delta del Nilo il 26 maggio. Ma parallela alla campagna contro i cristiani l’Isis ne ha condotta una contro la minoranza sufi. Ultimo episodio, la decapitazione di due sceicchi, a marzo.
Anche se ci sono stati alcuni contrasti con i Tarabin per il traffico di sigarette (nel Califfato fumare è proibito), l’alleanza con i beduini regge ancora ora. Il Cairo ha potuto rafforzare il suo dispiegamento militare, in deroga ai patti di Camp David, ma le basi avanzate si sono rivelate bersagli facili per gli attacchi kamikaze con veicoli sempre più potenti, sul modello di Iraq e Siria. L’Isis egiziano può contare anche sull’expertise di foreign fighter di ritorno, esperti in esplosivi e in tattiche di guerriglia apprese sui fronti siro-iracheni. Non esistono cifre ufficiali, ma i 2 mila uomini di Ansar Bayt al-Maqdis potrebbero essere raddoppiati.
Nelle scorse settimane la Coalizione anti-Isis a guida Usa ha fornito all’Interpol 43 mila nomi di foreign fighter andati a combattere nel Califfato, in gran parte dal Nord Africa. Un terzo è tornato nei Paesi d’origine o si è diretto su nuovi fronti «caldi», Libia e Sinai fra tutti. L’esercito egiziano, uno dei più imponenti del Medio Oriente con 310 mila uomini, fatica ad adattarsi. È stato creato come forza di massa per contrastare Israele mentre la contro-insorgenza vuole unità snelle, con addestramento specifico. La lotta ai gruppi terroristici viene affidato spesso a reparti speciali della polizia.
Il 20 ottobre oltre cinquanta agenti sono stati trucidati in un agguato in una località nel deserto, 135 km a Sud-Ovest del Cairo. L’attacco è stato attribuito al gruppo vicino ai Fratelli musulmani, Hasm. Ma molti pensano che sia opera dell’Isis. La media valle del Nilo è soggetta a infiltrazioni da parte di gruppi libici. Ministero dell’Interno e della Difesa diffondono regolarmente video di raid con cacciabombardieri su colonne di fuoristrada provenienti dalla Libia. L’enorme area desertica è impossibile da controllare. Al-Sisi è stretto fra due fronti, uno più insidioso dell’altro.