«Un’economia senza valori, senza qualità morali, non cresce, e non ha senso guardare solo a parametri come il prodotto interno lordo o il debito». Chi parla così è un elegante professore indiano, per lunghi anni capo economista della Banca Mondiale, allievo di Amartya Sen. Kaushik Basu è un economista molto strano, anomalo rispetto ai cliché, specie per uno transitato da queste istituzioni mondiali. Con Basu, nella chiacchierata che abbiamo fatto a Torino - dov’è venuto a tenere una lezione magistrale al Collegio Carlo Alberto su «Corruzione e legge» - può capitare di parlare di Antonio Gramsci, del grande poeta bengalese Tagore, o di Bertrand Russell e Wittgenstein. Di filosofia molto più che di numeri.

Lei, professore, ha un’idea originale sulla corruzione. Sostiene per esempio che - nei Paesi dove la corruzione è endemica - andrebbe inserita una differenza tra chi è costretto a pagare una tangente per un servizio che è dovuto, e chi la accetta. Solo il secondo va punito.

«Mi lasci prima dire una cosa. Ci sono Paesi, come la Cina, l’India, dove la corruzione è pervasiva, ed è difficile davvero che esistano dinamiche sociali o transazioni senza corruzione, anche a livelli minimi. In questi Paesi una lotta draconiana alla corruzione significherebbe lasciare ai governanti uno strumento per colpire i nemici, e il dissenso, e salvare gli amici. Questo va evitato. È qui che s’inserisce il caso che lei citava, e la mia proposta».

Ce la spiega meglio?

«L’esempio che lei fa si riferiva all’India. C’è una legge del 1988 che punisce allo stesso modo chi offre una corruzione e il funzionario che l’accetta. Non c’è da sorprendersi se le indagini non fanno nessun passo avanti e non si scopre mai nulla, perché non esiste un incentivo affinché uno dei due soggetti della corruzione parli ai magistrati. Nessuno parla perché c’è una collusione dei cosiddetti colpevoli: tutti colpevoli, nessun colpevole. Per esempio: una persona che è costretta a pagare una mazzetta, poniamo, per qualcosa di cui avrebbe diritto, una licenza di taxi, ecco, questa persona non dovrebbe esser punita».

Ma in altri scenari, come l’Europa, o gli Stati Uniti?

«Ci sono Paesi anche occidentali, per esempio la Svezia, in cui alcuni reati sono one-sided, considerati reati solo da una parte, per esempio il traffico sessuale. Se si rompe la simmetria vengono alla luce di più le storture. Anche la Cina, nel 1997, ha introdotto un’asimmetria nel trattare alcuni reati economici. E le ha giovato».

Alla base di questo ci sono dei valori. L’economia non cresce solo con numeri e imprese, cresce con le scelte morali delle persone?

«Gli esseri umani vivono di convinzioni e valori, non di cifre. Le faccio un altro esempio: non fumare nei luoghi pubblici è ormai accettato in Occidente, ma non lo è in India. Lì introdurre una legge che lo punisca, di per sé, non cambia i comportamenti. Ciò che li cambia sono le credenze e i valori che maturano gli esseri umani: convincersi per esempio che accettare una corruzione è sbagliato, riprovevole eticamente, e condannato da una società».

L’economia viene dopo, non prima.

«I professionisti dell’economia hanno messo tutto questo da parte, pensando fosse solo una questione di numeri, di dati, di parametri. Ma non è così, gli esseri umani vivono completamente d’altro».

Da questo punto di vista il divario si approfondisce, tra Nord e Sud del mondo?

«Sì. I Paesi ricchi hanno la possibilità di far apparire legale, usando le leggi, ciò che è moralmente corrotto. I poveri non possono farlo. I ricchi possono nascondere soldi a Panama, e magari a volte anche facendolo sembrare corretto, formalmente; i poveri vengono arrestati per una corruzione di cinque dollari in un ufficio di Calcutta».

I Paradise Papers insegnano.

«Ah ah ah, certo. C’è una rabbia ovunque, in India, ma anche negli Stati Uniti, per queste cose, questa esclusione dalle possibilità delle élite. Una cosa che sta accadendo ovunque, in Italia, negli altri Paesi europei, negli Usa, è il crollo della quota dei salari rispetto al Pil complessivo. Nel 1975, in Europa, la parte di prodotto interno lordo complessivo corrispondente ai salari delle persone era il 60%, oggi è il 25%. Due fattori hanno contribuito a questo: uno è la crescita delle tecnologie, che hanno dislocato posti di lavoro. La dislocazione non è di per sé un male, ma da cosa è stata rimpiazzata? Solo dalla crescita del profitto».

Il crollo dei salari è stato accompagnato dalla crescita delle diseguaglianze.

«La Cina e l’India hanno bilanciato a livello globale la contrazione dei salari. Ma dentro le società occidentali, questo non ha mitigato il crollo dei salari. Il che fa crescere la rabbia, che spesso non è una rabbia razionale, perché per altro verso le condizioni globali del lavoro sono molto migliori che nel 1975».

In tutto questo vincono nazionalismi, populismi autoritari, vince la Brexit, vince Trump.

«Io penso sia cominciato tutto con la cosiddetta rivoluzione Reagan-Thatcher, niente più Stato, idea sbagliatissima, ideologica. Trump non è ideologico in questo senso, ma è opportunistico, incoraggia le peggiori pulsioni, gruppi razzisti, isolazionismo economico, suprematismo bianco. Dal punto di vista dell’economia l’unica soluzione potrebbe invece essere solo più coesione: non con un reddito di base universale, che crea blocchi sociali emarginati. Bisognerebbe provare a distribuite e dividere un po’ la somma complessiva del profitto».

Professor Basu, lei sembra più un filosofo che un economista. Su Twitter, venendo a Torino, ha twittato la copertina dei Quaderni dal carcere di Gramsci. Sa che siamo a centro metri dalla vecchia casa di Gramsci, la prima sede della sua rivista L’Ordine Nuovo, embrione del Partito comunista italiano?

«Grande Gramsci, affascinante. Come il mio vero maestro filosofico, Bertrand Russell».

Finiamo questa conversazione davanti a una mappa, gli indico con la penna la strada per piazza Carlina e la casa di Gramsci, mentre parliamo di Ludwig Wittgenstein.

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