L’autostrada «sciita» si è materializzata all’improvviso alle frontiere di Israele e il premier Benjamin Netanyahu cerca di ricompattare l’intesa con il fronte sunnita scossa dalla decisione di Trump su Gerusalemme. È un video che mostra il comandante delle milizia irachena Asaib Ahl al-Haq sul confine fra il Libano e lo Stato ebraico a riportare l’attenzione sulla sfida sciita in Medio Oriente. Qais Al-Khazaali osserva l’orizzonte assieme a combattenti di Hezbollah, in lontananza si vedono le città israeliane di Metulla e Kiryat Shemona. «Siamo qui – proclama – pronti alla lotta per la causa palestinese e contro l’occupazione israeliana: liberemo Gerusalemme».

Non sappiamo se Al-Khazaali sia arrivato dall’Iraq alla frontiera israeliana via terra, lungo quel «corridoio sciita» sempre più ampio, dopo che l’Iraq ha dichiarato la vittoria finale contro l’Isis, e la Siria ha messo in sicurezza la strada che dal confine iracheno porta a Damasco e poi a Beirut. Di certo «l’apparizione» ha una tempistica perfetta perché inserisce il fronte guidato dall’Iran nella guerra, per ora propagandistica, «per Gerusalemme», la più popolare fra le masse arabe e musulmane.

La milizia Asaib Ahl al-Haq, «Lega dei giusti», è stata protagonista delle guerriglia contro le truppe americane in Iraq fino al 2011. Poi ha risposto alla chiamata alle armi del grande ayatollah Ali Sistani per fermare lo Stato islamico alle porte di Baghdad, nell’estate del 2014. Ora conta su circa 20 mila combattenti, un arsenale di armi e mezzi di fabbricazione russa, iraniana e persino americana. Ma non ha più il nemico jihadista da combattere, perché, con la conclusione delle operazioni alla frontiera siro-irachena, «la guerra all’Isis è finita», come ha annunciato ieri premier Haider al-Abadi.

Il califfato ha cessato di esistere come Stato terrorista dotato di un suo territorio. In Siria è ridotto a poche sacche isolate. Le milizie sciite irachene e libanesi lo hanno combattuto per tre anni e mezzo assieme agli eserciti regolari e si sono trasformate, anche se non tutte, nella «migliore fanteria in Medio Oriente». In Iraq possono contare su 200 mila uomini. La metà risponde direttamente a Teheran, e in particolare al comandante delle forze d’élite dei Pasdaran, Qassem Suleimani. È stato lo stesso Suleimani a supervisionare le operazioni al confine fra Siria e Iraq.

Ora i proclami di Al-Khaazali hanno fatto salire le stelle l’allarme in Israele, che già deve fronteggiare le proteste palestinesi in Cisgiordania, e attacchi più seri al confine con Gaza. Il premier Netanyahu ha sentito l’esigenza di ricompattare l’alleanza con gli Stati arabi sunniti. Mentre una delegazione del Bahrein arrivava nello Stato Ebraico, Netanyahu si preparava a volare a Parigi per incontrare oggi il presidente Emmanuel Macron che ridato un ruolo da protagonista alla Francia nella regione, è amico di Israele ma non è d’accordo sulla scelta di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come sua capitale.

Macron ha molta influenza in Libano, anche in funzione anti-Iran. Ieri il premier Saad Hariri ha denunciato la visita del comandante sciita iracheno come «una violazione delle leggi libanesi». Hariri ha appena ritirato le sue dimissioni, dopo che il presidente Michel Aoun gli ha promesso un progressivo ritiro di Hezballah dai fronti siriano e iracheno, in nome della «neutralità del Libano». Ritrovarsi in casa le milizie irachene era l’ultima cosa che desiderava. Ma senza più l’Isis da combattere le formazioni sostenute dai Pasdaran hanno allargato il raggio delle loro ambizioni. Un’altra milizia irachena, l’Harakat al-Nujaba, ha minacciato le truppe americane, «bersaglio legittimo» dopo la scelta di Donald Trump. E l’ancor più potente Saraya al-Salam, agli ordini dell’imam Muqtada al-Sadr, ha dichiarato che addestrerà un’unità speciale «per Gerusalemme». «Possiamo raggiungere il confine israeliano attraverso la Siria», ha avvertito.

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