Non è un paese per bambini l’Australia. Almeno così pare osservando i risultati della corposa inchiesta sulla pedofilia della Royal Commission che, dal 2012 ad oggi, ha raccolto in diciassette volumi 15mila deposizioni e 8mila audizioni a porte chiuse di coloro che in orfanotrofi, scuole, circoli sportivi, gruppi giovanili, e soprattutto istituzioni cattoliche (si parla del 61,8% dei casi) sono stati vittime di abusi sessuali. L’Australia «è venuta meno in modo grave ai suoi doveri» di proteggere i bambini, si legge nel final report, «decine di migliaia di bambini sono stati vittime di violenza sessuale in molte istituzioni australiane e non ne sapremo mai il numero esatto».

Lo sconcerto che ha provocato l’indagine si sintetizza nelle parole del premier australiano, Malcolm Turnbull: «Una tragedia nazionale», ha detto. E non ha mancato di ringraziare «i membri della Commissione e coloro che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie». 

I sei membri della Royal Commission into Institutional Responses to Child Sexual Abuse (Commissione Reale d’inchiesta sulle risposte delle istituzioni agli abusi sessuali su minori) - organismo istituito nel 2013 dal governo laburista di Julia Gillard, che  a marzo 2016 aveva torchiato il prefetto della Segreteria vaticana per l’Economia, il cardinale australiano George Pell per i presunti insabbiamenti di casi di pedofilia - hanno setacciato ogni angolo dei sei Stati dell’isola intimando e ottenendo il rilascio di 1,2 milioni di documenti riservati

Dal meticoloso lavoro sono state identificate oltre 4mila istituzioni, teatro di crimini sessuali su minori negli ultimi decenni. Non erano poche le «mele marce», spiega il documento, «alcune istituzioni hanno avuto diversi pedofili che hanno aggredito numerosi bambini»; esse hanno quindi «fallito in modo grave nei loro doveri e in molti casi queste carenze sono state aggravate da una risposta chiaramente inadeguata per le vittime». 

Circa 2600 persone sono state segnalate alla polizia e ad altre autorità che hanno avviato 230 azioni penali. Una mossa, quest’ultima, non scontata considerando che, nel passato – come ha denunciato il presidente della Commissione, Peter McClellan - «la polizia ha spesso rifiutato di credere ai bambini e di indagare sulle loro denunce e il sistema di giustizia penale ha creato molte barriere alla riuscita di procedimenti giudiziari».

«In molti decenni numerose istituzioni hanno tradito i nostri bambini. I sistemi di protezione dell’infanzia e di giustizia civile li hanno abbandonati», ha aggiunto lapidario McClellan. Che sul banco dei principali imputati trascina la Chiesa e tutte le sue autorità accusate di mala gestione e insabbiamenti dei casi di abusi (una delle maggiori accuse rivolte a Pell, da giugno in congedo dal Vaticano per difendersi in Tribunale in Australia). 

Proprio ai sacerdoti è rivolta una delle 409 raccomandazioni (189 delle quali del tutto inedite) contenute nel rapporto conclusivo e indirizzate a governi e organizzazioni per evitare che il dramma possa ripetersi in futuro. Ai preti si suggerisce di rivedere il voto di castità, considerandolo all’origine di tanti cattivi “impulsi”, perché diventi «volontario», ma soprattutto si chiede di ripensare la questione del segreto durante la confessione, in modo che il sacerdote confessore – al pari di poliziotti, medici, infermieri - sia obbligato per legge a denunciare gli atti di pedofilia eventualmente ammessi nel confessionale.

Insomma, si tratterebbe di violare il sigillo sacramentale come sancito dal Codice di Diritto Canonico e dal Catechismo della Chiesa cattolica, il quale afferma che il confessore è vincolato dal segreto assoluto non soltanto per quanto riguarda i peccati ma anche per quanto egli viene a conoscere riguardo alla vita del penitente. 

La proposta ha infatti suscitato una reazione piccata da parte dei vescovi australiani che l’hanno bollata come «inaccettabile». Il presidente della Conferenza episcopale e arcivescovo di Melbourne, Denis Hart, intervenendo a riguardo ha dichiarato che si sentirebbe «terribilmente combattuto» se qualcuno gli confessasse di essere autore di tali crimini, perché il segreto «è inviolabile» e «non può essere spezzato». «Non riesco a immaginare che la natura sacrosanta della confessione possa mai cambiare», ha detto il pastore di Melbourne ai giornalisti, «rispetto la legge di un Paese, ma è un impegno sacro, spirituale, davanti a Dio che devo onorare e devo rispettare».

La questione non è di poco conto: «La pena per un sacerdote che viola il segreto della confessione è la scomunica, è una questione spirituale, reale e grave» ha spiegato Hart, sottolineando tuttavia che «se qualcuno confessasse di aver abusato di bambini, lo incoraggerei ad ammettere i suoi crimini al di fuori del confessionale in modo che possano essere riferiti alla polizia».

Il capo dell’episcopato australiano – che si è mostrato invece piuttosto possibilista sull’introduzione del celibato volontario – ha assicurato comunque che la Chiesa cattolica del paese ha preso «molto seriamente» i risultati dell’inchiesta. E, «a nome dei vescovi e dei leader religiosi cattolici», ha ribadito «le scuse incondizionate per questa sofferenza» e per «questo vergognoso passato, in cui una prevalente cultura della segretezza e dell’autoprotezione ha portato a sofferenze inutili per molte vittime e per le loro famiglie». Di qui la promessa di un maggior impegno «a garantire giustizia per le persone colpite».

Con uguale prontezza l’arcivescovo di Sydney, Anthony Fisher, ha affermato che il rapporto non «siederà su uno scaffale» e che è pronto ad affrontare i fallimenti sistemici dietro gli abusi. Il vescovo si dice infatti «inorridito» dall’attività peccaminosa e criminale di alcuni membri del clero e si vergogna della risposta che alcuni dirigenti della Chiesa hanno dato in passato. «Riconosco e comprendo come questo abbia danneggiato la credibilità della Chiesa nella comunità e abbia scioccato molti dei nostri fedeli», ha aggiunto, «se vogliamo essere degni della fiducia delle persone, dobbiamo dimostrare che i diritti dei bambini sono sempre rispettati». 

Solo così, solo se «le storie non saranno nascoste sotto il tappeto e non ci sarà alcun insabbiamento», ha fatto eco l’arcivescovo di Perth Timothy Costelloe, tutto il lavoro della Commissione e la sofferta testimonianza delle vittime «non saranno state vane».

Dal canto suo la Santa Sede, sottolineando che il rapporto della Commissione «merita di essere studiato approfonditamente», si dice «vicina alla Chiesa cattolica in Australia - fedeli laici, religiosi e clero - mentre ascolta e accompagna le vittime e i sopravvissuti nello sforzo di portare guarigione e giustizia». Poi ricorda le parole di Papa Francesco nel recente incontro con la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, quando ha affermato che «la Chiesa è chiamata ad essere luogo di compassione, soprattutto per coloro che hanno sofferto» ed «è impegnata nell’assicurare ambienti che garantiscono la protezione di tutti bambini e adulti vulnerabili». 

Già nel febbraio 2017, la Royal Commission pubblicava un report in cui denunciava che, tra il 1950 e il 2015, oltre 4500 minori erano state vittime di abusi sessuali da parte di preti cattolici, il 7% dei quali erano da incasellare come abusatori seriali. L’ennesimo risultato «straziante», come ammetteva monsignor Fisher, per una Chiesa che con difficoltà riesce a rimarginare questa ferita. 

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