Ore 10 del mattino, Roma. Il presidente Evo Morales, con i suoi tratti di contadino delle Ande, un «cocalero» che veste i panni di capo di Stato, fende il traffico cittadino per andare a incontrare papa Francesco in Vaticano. È il loro quinto incontro. Tra i due c’è un buon feeling e Morales ne gode. «Mio fratello papa Francisco - dirà poi - come sempre è solidale, umano e integrazionista. L’incontro con il fratello Papa mi dà più forza e più impegno per i più abbandonati».

Si sente leader di un intero continente, Morales. E poco importa se sui social c’è chi lo paragona a Mugabe. Lui, ultimo caudillo, tira dritto, appellandosi alla stabilità senza precedenti che ha portato in Bolivia. È al potere dal 2006 e non intende mollare. Il suo popolo, in un referendum del 2016, gli aveva mandato un messaggio chiaro: il 51,3% aveva votato contro la possibilità che si ricandidasse. E invece ha trovato il modo di aggirare la costituzione boliviana. Il 28 novembre scorso ha ottenuto il via libera del Tribunale supremo per ricandidarsi nel 2019. Dalla comunità internazionale, gli Usa su tutti, sono piovute critiche sulle sue mosse, considerate autoritarie. «La verità - risponde a brutto muso - è che in passato eravamo sottomessi politicamente a Washington ed economicamente al Fondo monetario internazionale. Ora siamo liberi e a molti questo non piace».

Prima di avviarsi verso il Vaticano, reduce da un viaggio europeo che lo ha portato in Francia, Austria e Svizzera, il presidente socialista ha voluto incontrare un piccolo gruppo di giornalisti, tra cui La Stampa, per ribadire la sua visione per l’America Latina. «Abbiamo un progetto strategico, una ferrovia bi-oceanica che colleghi l’Atlantico con il Pacifico, passando per il centro del continente. Permetterà alle merci in partenza da Shangai di arrivare in Europa prima e a costi inferiori rispetto al canale di Panama. I nostri vicini, Brasile, Uruguay, Paraguay, avranno tutti un gran beneficio». Visionario, Morales. E anche temerario. Qualche anno fa ha nazionalizzato le riserve minerarie, sloggiando innanzitutto le multinazionali Usa. Ora dice: «Voglio che sappiano, i cittadini della Svizzera e dell’Europa, che quando siamo arrivati al governo, abbiamo ricevuto un Paese mendicante. Ora siamo un Paese degno».

È un fatto che in dieci anni la povertà in Bolivia sia crollata dal 63% al 39%, e che l’economia boliviana viaggia a un tasso del 5% annuo. Perciò risponde con orgoglio alle domande: «La liberazione politica del mio Paese si è accompagnata alla liberazione economica. Ora è giunto il tempo della liberazione tecnologica». E qui si viene alla vera natura del suo viaggio in Europa, che ha una valenza industriale e una diplomatica. L’idea di un treno trans-americano dal porto di Ilo in Perù a quello di Santos in Brasile, 3 mila 755 chilometri attraversando le Ande e il Mato Grosso, costo stimato di 15 miliardi di dollari, presenta difficoltà inaudite. La tecnologia europea sarà fondamentale. Specie di quei Paesi che hanno esperienze di ferrovia in alta quota. Così il progetto del treno bi-oceanico ha monopolizzato gli incontri di Berna e Graz, in Svizzera e Austria, dove sono stati firmati memorandum d’intesa.

Il progetto rischia però di abortire sul nascere per un problema non da poco: la Bolivia è un Paese senza alcun porto. Tra le sue montagne e il mare, di mezzo c’è il Cile. Una questione che si trascina da almeno un secolo. A fine Ottocento la Bolivia ha perduto una guerra e una porzione fondamentale di territorio; in seguito è stato raggiunto un accordo di libero transito verso il mare, ma a sovranità cilena. Ecco perché Morales ha impugnato questo antico accordo davanti al Tribunale internazionale dell’Aja e ha lanciato la campagna: «Mare per la Bolivia».

Da ieri c’è forse un mediatore d’eccellenza, il Pontefice. «La Bolivia - scriverà Morales su Twitter, poco prima di decollare - ha ancora ricordi molto emozionanti della sua visita del luglio 2015 e del suo sostegno al processo di cambiamento e alla rivendicazione sintetizzata dallo slogan Mare per la Bolivia». Il leader boliviano di recente ha però perduto diversi amici nell’area: il Venezuela dopo Chavez è alle convulsioni, Brasile e Argentina non hanno più governi di sinistra, il Cile è molto irritato. Di qui inedite aperture («Siamo per il dialogo con tutti») ed esasperati toni anti-statunitensi.

L’imperialismo e il capitalismo di Washington come causa di tutti i mali. Anche del cambiamento climatico. Come ne ha parlato due giorni fa con il presidente Macron, a Parigi, ci è tornato ieri con i giornalisti a Roma: «Non dobbiamo interrogarci solo sugli effetti, ma soprattutto sulle cause del cambiamento climatico. Il neocolonialismo è dietro la rapina delle risorse naturali, vedi la deforestazione. Noi in Bolivia, all’opposto, riforestiamo e concorriamo positivamente all’equilibrio del mondo: emettiamo solo lo 0,1% dei gas serra globali, la nostra Amazzonia fornisce il 2% dell’ossigeno al pianeta». Ma senza sanzioni, secondo Morales, l’Accordo di Parigi resterà lettera morta. «Per questo proponiamo un Tribunale del cambiamento climatico, per perseguire e condannare quei governi e quelle industrie che stanno uccidendo il Pianeta». E il primo che vorrebbe processare è Donald Trump. «Lo vedete. Dapprima si è ritirato dall’Accordo di Parigi. Poi da quello sui migranti. Da ultimo, la Palestina. Trump è un pericolo per l’umanità».

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