Il 21 maggio del 2015 padre Jacques Murad veniva sequestrato dall’Isis mentre si trovava nel monastero siro cattolico di Mar Elian, a Quaryatayn, in Siria. Lui era il Priore di quel Monastero al tempo. Dopo cinque mesi di detenzione e ripetute minacce di morte perché «infedele» padre Jacques riuscì a fuggire, come ha raccontato poco dopo la sua rocambolesca fuga. Incontrandolo ora, pur a tanto tempo di distanza da quei momenti, è difficile, nonostante la pressione dell’attualità e delle sue drammatiche notizie, non partire di lì, dal suo sequestro.

Anche se è chiaro che a lui non piace parlare di sé «mentre oggi ci sono milioni di siriani che soffrono, che seguitano a soffrire» padre Jacques accetta di ricordare e di tornare a dire qualcosa su quei giorni. Perché la sua detenzione li riguarda, non può non riguardarli. E a tutto quello che ha già detto, per esempio che «quasi tutti i giorni c’era qualcuno che entrava nella mia prigione e mi domandava chi siete? Io rispondevo: sono nazareno, cioè cristiano. Allora sei un infedele, gridavano. E visto che sei un infedele se non ti converti ti sgozzeremo con un coltello. Ma io non ho mai firmato l’atto di abiura del cristianesimo», oltre a questo e alle modalità della cattura, quando lo prelevarono e lo costrinsero a mettersi alla guida della sua macchina, o alle modalità della fuga, quando un amico musulmano riuscì miracolosamente a portarlo in salvo, facendolo salire su una motocicletta, decide di aggiungere qualcosa: «Ricordo molto bene che un giorno mi venne a interrogare il capo del gruppo che mi aveva rapito. Non è un bel ricordo, ma lo ricordo. Quell’uomo, non so bene perché, ritenne di guardarmi e di dirmi che la loro guerra non era con Assad, ma con l’Esercito libero siriano da una parte e con al Qaida dall’altra. Così ha finalmente trovato risposta dentro di me una domanda: a 500 metri dal convento c’era un posto di blocco dell’esercito; come erano passati, come siamo passati? Questa domanda oggi mi porta a farmene altre, che ritengo importanti. Cosa è successo dei miliziani dell’Isis dopo la loro sconfitta? Dove sono? Come mai i loro avversari li hanno accompagnati sistemandoli su pullman, a loro e ai loro familiari più stretti, portandoli lontano dai luoghi di combattimento? È successo ad Arsal, è successo a Raqqa, è successo a Deir ez-Zoor. Dove li hanno portati? Dove sono? Cosa fanno?».

Murad parla dell’Isis ma non è ossessionato dai mesi del suo sequestro, sotto il basco con cui passeggia e il sorriso che lo accompagna, si percepisce che la priorità per lui è un’altra. «Leggo tante volte, e da parte di tanti osservatori o analisti o altro, che la priorità per la Siria oggi è preservare l’unità nazionale. Leggo ma non posso che chiedermi: davvero? È questa la priorità? Non saranno i milioni di persone che vivono da anni in tendopoli? Lì ci sono interi nuclei familiari, bambini, anziani... Possono farcela ancora? Io mi domando se abbiamo perso la dimensione etica dei problemi, l’umanità. E poi, perché per tutti questi milioni di persone che vivono in queste condizioni fuori dalla Siria l’unica prospettiva ieri, oggi e domani, è quella dell’esilio? Perché l’esilio per tutti costoro non dovrebbe avere alternative? Cosa hanno fatto? Perché non deve esserci il rientro in patria nel loro orizzonte? Per quale ragione? Per una persona? Per una sola persona?».

Tentando di portarlo a parlare di quanto sta accadendo ora il suo pensiero non va a chi negozia, ma a chi soffre di più, come le persone che vivono ancora sotto assedio, senza cibo né medicinali, in tante periferie siriane, a cominciare dalla periferia di Damasco, la Ghouta. «Chi sa cosa accada lì dentro, ogni mese, da mesi, ogni giorno, da giorni e giorni? Cosa succede nella quotidianità, mi chiedo. Sappiamo le notizie di contesto, che lì dentro si annidano jihadisti di un gruppo legato ad al-Qaida, e siccome nessuno al mondo è disposto a dargli un salvacondotto loro restano lì ed il regime prosegue l’assedio. Ma i civili? La popolazione?». L’assedio blocca i viveri per migliaia di persone, come le medicine, o gli altri generi di prima necessità e ogni tanto qualche missione umanitaria cerca di alleviare le sofferenze della popolazione, magari con dolorosi insuccessi, come nel caso dei decessi registrati anche di recente. Una bambina che doveva essere tratta in salvo sarebbe morta prima dell’arrivo dei soccorritori nei giorni appena trascorsi. Viene da domandarsi, ascoltando, come mai qui non si possa trovare una soluzione come negli altri casi da dove i miliziani dell’Isis sono stati condotti altrove.

Murad non vuole parlare dei negoziati di pace, «perché la pace passa dai cuori, e dal contesto. È impossibile pensare a una pace per la Siria senza parlare del Libano, dell’Iraq, e poi del Golfo e di tanto altro. Ma c’è qualcuno che oggi cerca davvero la pace? C’è qualcuno che è davvero interessato a costruirla questa pace? O è solo la risultante di diverse priorità politiche? Mi ricordo una volta, anni fa: ebbi l’occasione di incontrare il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. Gli dissi che avevo un solo pensiero: trovare il modo per far ottenere il diritto d’asilo a tutti i siriani, a tutto il popolo siriano...» .

La Siria di cui parla Murad è molto diversa da quella vicina alla ricostruzione di cui si parla spesso. «Nella mia Siria oggi ci sono solo bande, milizie e servizi segreti, che agiscono senza legge, vessano la popolazione, rubano, esigono tangenti, pagamenti. Per esempio: giorni fa una studentessa che andava all’università è stata fermata per strada, potremmo dire sequestrata, o rapita, fino a che la sua famiglia non ha pagato. Questo è l’ordine quotidiano della sofferenza e dell’insicurezza di ogni siriano».

Il pensiero ovviamente non può che andare alle comunità cristiane, che tanti sequestri hanno patito, e quindi al loro futuro. «Futuro? Forse dovremmo fermarci un attimo, e dovrei farti vedere il mio WhatsApp: lì ci sono solo richieste di aiuto, aiuto a emigrare, ad andarsene, a fuggire. Questo è il presente».

Il pensiero di padre Jacques va spesso al suo lavoro con i profughi, all’assistenza per chi ha perso tutto. Tornare a vedere l’uomo, ogni uomo, forse è questo il senso di quel calore espressivo, che non ha smesso di accompagnarlo durante tutto il nostro colloquio, anche mentre raccontava del sequestro, o quando si diceva stanco di giochi, di rappresentazioni funzionali, di tanti raggiri sulla testa di un popolo intero.

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