Sepolcro imbiancato, osannare, agnello sacrificale, farisaico: sono alcune delle decine di parole ed espressioni di origine evangelica diffuse oggi in ambito profano. “Per chi non sa quello che dice, legge o scrive”, recita il sottotitolo del libro di Innocenzo Mazzini “Giornali e locuzioni cristiane” (in vendita su Amazon a 4.40 euro). 

«Una diffusione così rilevante costituisce una conferma del millenario radicamento della religione cristiana in Italia e della sua penetrazione nel tessuto culturale della nazione», spiega a Vatican Insider Mazzini, già ordinario di Storia della Lingua latina all’Università di Macerata e autore di oltre 150 saggi di argomento storico-linguistico e di una ventina di volumi scientifici in Italia e all’estero. 

In 130 dense pagine l’autore ricostruisce lo svuotamento semantico che emerge nel riciclo di termini ed espressioni cristiane in ambito profano. «È un effetto della secolarizzazione: si usano espressioni d’origine religiosa senza conoscerne la provenienza - puntualizza Mazzini - Nella sensibilità e nella consapevolezza di chi scrive e parla, le espressioni cristiane vengono svuotate del loro valore primario e proprio per questo possono essere rifondate semanticamente e rimesse in circolazioni con significati profani». E qui le cause divergono. 

Il riciclo dissacratore dei termini evangelici, soprattutto quello carico di negatività, può essere il prodotto di un certo anticlericalismo diffuso in Italia e in Europa soprattutto nei decenni scorsi. Ma, analizza Mazzini, in taluni ricicli («banali, dissacratori o mostruosi») affiorano anche i limiti del linguaggio giornalistico contemporaneo. Un’approssimazione lessicale e semantica dovuta spesso a sensazionalismo e povertà culturale. «Qualunque lingua, nelle sue trasformazioni globali o parziali, costituisce lo specchio dell’evoluzione o involuzione di una società nel suo insieme e nelle sue diverse articolazioni - osserva Mazzini - Riutilizzare espressioni evangeliche è in linea con la ricezione e veicolazione laiche del messaggio cristiano nella comunicazione di massa in forme differenti: dissacranti, umanizzanti, critiche e polemiche».

Ne è un esempio il nome di Giuda, uno dei dodici apostoli con una serie di espressioni divenute proverbiali: essere un Giuda, nero come l’anima di Giuda, bacio di Giuda. Nei Vangeli è menzionato quasi esclusivamente per il suo tradimento e così in tutta la letteratura cristiana. Fin dal medioevo è sinonimo di traditore sia nella letteratura sia nel linguaggio corrente. «Una certa letteratura laica che in tempi moderni e contemporanei ne ha proposto una rivalutazione non è ancora riuscita ad attenuare quel marchio infamante di traditore nelle locuzioni correnti che lo riguardano», evidenzia l’autore che poi elenca decine di titoli di giornale nel quali l’Iscariota è associato a situazioni, persone e circostanze prevalentemente di ambito politico. 

Nella dissimulazione del linguaggio si nasconde quindi l’uso spesso strumentale delle locuzioni cristiane da parte dei massa media. Ed è qui che si collega il monito lanciato da Papa Francesco pochi mesi dopo la sua elezione al Soglio di Pietro. «L’ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione», ha ammonito il Pontefice nell’omelia durante la Messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta il 4 giugno 2013: «L’ipocrisia non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l’amore, non c’è verità senza amore, l’amore è la prima verità e se non c’è amore non c’è verità».

I farisei, gli ipocriti, «vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l’amore che c’è è quello di se stessi e a se stessi: quell’idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia». Un riferimento ai falsi amici che «sembrano tanto amabili nel linguaggio», ai «corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci», mentre Gesù chiede che «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”, che sia evangelico». 

Infatti, è il richiamo del Papa, «gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l’adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato: il nostro linguaggio sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall’amore». 

Perciò, concorda Mazzini, «il riciclo delle locuzioni cristiane, come anche di quelle latine in epoca di decadenza degli studi classici» risulta ancora più sospetto e animato persino da oscure intenzioni. Un po’ come accade a Renzo nel secondo capitolo dei “Promessi Sposi”, quando don Abbondio gli enumera in latino gli impedimenti dirimenti: «Si piglia gioco di me?», protesta il giovane. «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?».

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