«Un classico», spiegava Italo Calvino, «è un’opera che non ha mai finito di dire tutto quello che ha da dire». Questo è vero sempre, ma in particolare lo è per quanto riguarda Shakespeare, i cui lavori da quattro secoli continuano a dire cose nuove a generazioni e genti lontanissime da lui. Il saggio di Stefano Manferlotti Rosso elisabettiano (Liguori, pp. 190, 20,99) riflette su alcune delle opere del Bardo per farci scoprire - o riscoprire - quanto importante sia «il sangue» nei suoi lavori, a partire da quello versato da Macbeth, che «neppure tutte le acque dell’oceano potranno mai lavare» dalle sue mani.

Lo spettacolo della forca

Il sangue faceva parte della realtà quotidiana del tempo di Shakespeare. Come le teste mozzate dei traditori che facevano bella mostra di sé sul London Bridge. O come l’esecuzione dei preti cattolici che, come quel gesuita parente di Shakespeare, sul patibolo venivano sventrati; e poi il boia mostrava loro le budella prima dell’impiccagione. Il popolo accorreva entusiasta ad assistere allo spettacolo, accalcandosi intorno alla forca per vedere meglio.

È questo mondo, crudele e sanguinario, purificato dalla potenza della poesia, che fa da sfondo, come sottolinea Rosso elisabettiano, ad alcune delle pagine più belle e intense di Shakespeare. Un mondo come minimo «inquieto», come dice l’aggettivo che compare nel titolo dell’elegante volume di Neil MacGregor, ex direttore del British Museum, Il mondo inquieto di Shakespeare, pubblicato da Adelphi nella traduzione di Carlotta Fonzi (pp. 315, 22). Il libro, partendo dall’immagine di venti oggetti legati a quel mondo (ma a questi se ne aggiungono moltissimi altri, tutti splendidamente riprodotti), ci propone uno sguardo dalla parte dello spettatore - o del lettore - sull’opera del Bardo.

A teatro con la forchetta

Lo spettatore può essere il proprietario della raffinata forchetta trovata durante gli scavi nel luogo dove quattro secoli fa sorgeva il Rose Theatre (ebbene sì, gli spettatori mangiucchiavano durante lo spettacolo, come gli odierni consumatori di popcorn al cinema). I lettori possono essere i leader dell’African National Congress, tra i quali Nelson Mandela, incarcerati a Robben Island, che su un’edizione tascabile dell’opera completa di Shakespeare, introdotta in carcere clandestinamente (la lettura era vietata), indicarono i versi che, nella condizione in cui si trovavano, parevano loro più significativi. Mandela scelse la frase in cui Cesare dice che «i paurosi muoiono mille volte prima della loro morte: ma l’uomo di coraggio non assapora la morte che una sola volta»: nel libro è riprodotta la pagina del Giulio Cesare con la data scritta a margine, 16-12-77.

Alcuni di questi oggetti già sono noti ai più. Altri, invece, sono delle piacevoli sorprese. Per il lettore italiano potrà soprattutto essere sorprendente vedere quanto vasta fosse la presenza dell’Italia e della sua cultura nell’età elisabettiana. Grande era quella delle opere letterarie (a cui Shakespeare attinse abbondantemente), ma anche quella di prodotti e opere di altra natura, come il manuale di scherma di Vincenzo Saviolo, la cui tecnica viene citata in Romeo e Giulietta.

Altrettanto grande era la presenza dell’antica Roma, a cui Londra e la Corte facevano riferimento come modello. Non è casuale che la moneta d’argento coniata nel 1603 per l’incoronazione di re Giacomo I rappresenti il sovrano con il costume di un imperatore romano e con il titolo di Cesare. L’ammirazione per Roma causò una curiosa credenza a proposito della Torre di Londra, uno dei più grandiosi monumenti dell’Inghilterra medievale e simbolo maestoso della conquista normanna, che invece era ritenuta una costruzione dell’epoca romana dovuta a Giulio Cesare. Lo afferma Buckingham nel Riccardo III («È un dato storico, signore»); e lo dice la regina nel Riccardo II. Anche Shakespeare c’era cascato.

Irrimediabilmente umani

Questo naturalmente nulla toglie alla sua grandezza, perché, come alla Calvino conclude Neil MacGregor, «secoli dopo, nel ghetto di Varsavia come in un carcere del Sudafrica, Shakespeare sa parlare alla difficile condizione del nostro tempo». Anche per noi, i suoi versi «sanno catturare l’essenza di ciò che significa essere irrimediabilmente umani in un mondo perennemente inquieto».

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