«La dichiarazione unilaterale del presidente statunitense Donald Trump su Gerusalemme è un grande contraccolpo negli sforzi per raggiungere una pace globale nella regione» ed è stata «uno schiaffo in faccia non solo per noi ma per l’intero mondo arabo, musulmano e cristiano». L’ambasciatore palestinese presso la Santa Sede, Issa Kassissieh, ha ascoltato con gratitudine il nuovo appello del Papa per la Città Santa di cristiani ebrei e musulmani, in occasione dell’udienza al Corpo diplomatico per gli auguri di inizio anno, e ora auspica che il governo degli Stati Uniti, quello di Israele, ma anche Bruxelles, dove il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si reca il 22 gennaio, ascoltino il Romano Pontefice e favoriscano la soluzione di quella che considera la madre di tutti i conflitti del Medio Oriente.

La «mal consigliata decisione» di Trump di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme «ci ha portato indietro e temo che tutti i risultati dell’accordo di pace siano ora messi in forse da questo buco nero», afferma in un colloquio presso l’ambasciata il rappresentante diplomatico di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) presso il Palazzo apostolico, ricordando che tanto il consiglio di sicurezza quanto l’assemblea generale delle Nazioni Unite hanno respinto la decisione della Casa Bianca. Il Papa, prosegue Issa Kassissieh, palestinese di religione cristiana, «comprende molto bene l’importanza di Gerusalemme per il mondo intero e la Santa Sede è preoccupata da atti unilaterali che si riflettono negativamente sulla regione e sul mondo. Sua Santità si preoccupa per la pace del mondo e per la giustizia e la pace nella Terra santa», prosegue l’ambasciatore ricordando che «nel 2015 la Santa Sede ha firmato un accordo globale con lo Stato di Palestina che ne riconosce i confini del 1967, riconosce l’aspirazione nazionale del popolo palestinese e avvicinare la pace tra le due parti». Inoltre, «per la Santa Sede così come per le 13 Chiese di Terra Santa c’è preoccupazione per l’esistenza stessa del cristianesimo nella regione».

 

Cosa ha detto al Papa quando lo ha salutato personalmente in occasione dell’udienza agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede? E cosa le ha risposto il Papa? 

«Gli ho fatto gli auguri per il nuovo anno, l’ho ringraziato per il suo discorso e gli ho detto che ha toccato il mio cuore e la mia mente, il cuore e la mente dei palestinesi, con un messaggio che porta speranza in un momento in cui ci sono persone che vivono nella disperazione. Ho sottolineato che dobbiamo lavorare insieme per mantenere lo status quo di Gerusalemme e assicurare che la Città Santa sia aperta e condivisa. Egli mi ha salutato ed ha mandato i suoi auguri al presidente Mahmoud Abbas, che ha incontrato numerose volte, ed ha augurato pace e prosperità al popolo palestinese. Più in generale, nutriamo rispetto e apprezzamento per Sua Santità, il suo messaggio è il messaggio di Gesù. Dovrebbe essere ascoltato nei corridoi dell’amministrazione americana così come di Israele. Egli si spende per la giustizia e la pace nel mondo, a partire dalla Terra Santa, da Gerusalemme. Quando parliamo di giustizia parliamo della soluzione dei due Stati», palestinese e israeliano, che vivono uno accanto all’altro».

 

Il presidente Mahmoud Abbas ha telefonato al Papa il giorno prima dell’annunciata decisione di Trump, Francesco ha poi ricevuto la visita del re Abdullah di Giordania, le telefonate del presidente turco Recep Tayyip Erdogan: come è percepito Papa Francesco dai leader mediorientali, specialmente in questo momento in cui alla Casa Bianca c’è Donald Trump? 

«Quando il presidente Abbas ha chiamato il Papa lo ha fatto per il suo peso internazionale e per la sua responsabilità nei confronti della Terra Santa. Il Papa rappresenta Gesù e vuole assicurare la presenza dei cristiani in Terra Santa. La Santa Sede deve essere parte di ogni accordo futuro per Gerusalemme. Tutti i leader sono convinti che quello che Trump fa è sbagliato e l’errore va rettificato, tutti lavorano affinché, come dice Papa Francesco, vengano riesumati i colloqui tra le due parti. E Gerusalemme non dovrà essere fuori dal tavolo negoziale, ma deve essere il primo tema del negoziato».

 

Dopo l’annuncio di Trump le reazioni sono state accese ma non vi è stata ad esempio una nuova intifada. Secondo lei perché Trump ha preso la sua decisione? Sapeva che la reazione non sarebbe stata così violenta?

«Il popolo e la leadership palestinesi hanno reagito con forza, sono andati per strada, ci sono state manifestazioni pacifiche per esprimere insoddisfazione e rabbia. Ci sono stati molti martiri nelle ultime settimane. Ma onestamente quando il nostro popolo ha visto che alle Nazioni Unite gli Stati Uniti erano isolati anche dai propri alleati più stretti, ha capito che la comunità internazionale sta dalla parte della giustizia. C’è stata anche una conferenza dell’organizzazione islamica in Turchia che ha unanimemente respinto la decisione di Trump e riconosciuto Gerusalemme Est come futura capitale dello stato di Palestina. Come leadership usiamo ogni strumento possibile per mantenere la speranza del nostro popolo e continuare a lavorare a livello internazionale su più fronti. Ora si attendono le decisioni che la leadership palestinese prenderà in merito alla futura strategia sull’intera situazione in occasione del comitato centrale della Organizzazione per la Liberazione della Palestina che avrà luogo il 14 e 15 di questo mese. Perché Trump ha preso la sua decisione? Bisognerebbe chiederlo a lui. Noi siamo stati sinceramente presi di sorpresa. Il nostro team negoziato ha incontrato il tema statunitense più di 35 volte, preparando il terreno per un accordo finale. Con tali incontri e la buona fede pensavamo di stare sulla giusta strada. Il presidente Abbas ha avuto tre incontri con il presidente Trump, che gli ha dato fiducia e ha trasmesso il messaggio che l’accordo finale sarebbe stato soddisfacente, basato sulla giustizia, in accordo con le risoluzioni internazionali. Ci attendevamo insomma un accordo finale, e invece è arrivato uno schiaffo finale in faccia. Uno schiaffo non solo per noi ma per l’intero mondo arabo, musulmano e cristiano. Penso che i tre consiglieri principali del presidente Trump sul Medio Oriente sono il genero Jared Kushner, Jason Greenblatt e il suo ambasciatore in Israele David Friedman: guardi al loro background e poi ti poni delle domande circa i loro consigli al presidente. La sua decisione, a quanto capisco io, è stata presa contro l’avviso dell’establishment americano, compreso il Dipartimento di Stato e la Sicurezza nazionale. La questione adesso è come venir fuori da questa situazione ora che gli Stati Uniti si sono squalificati dal processo politico».

 

Nel discorso al Corpo diplomatico il Papa ha parlato estesamente anche della principale crisi mediorientale di questi anni, quella siriana: qual è la sua opinione? 

«Siria, Iraq… la situazione è disastrosa! Daesh ha perseguitato le minoranze e in particolare i cristiani, ferisce vedere che sono stati costretti a emigrare fuori dal Medio Oriente. Come dice il Papa, sono sale della terra, senza i cristiani non possiamo parlare di un Medio Oriente moderato. Dopo la sconfitta di Daesh speriamo che la Siria torni alla comunità internazionale, ricostruisca il suo stato, il popolo torni alle case. Ma il Papa, così come altri, sa che la soluzione futura dei conflitti del Medio Oriente partono dalla questione palestinese. Non possiamo parlare di una pace globale e duratura senza affrontare le radici del problema del Medio Oriente, della questione palestinese e della occupazione che dura da 70 anni. Quando le persone sono oppresse, soffrono, sono marginalizzate, arrabbiate e non vedono speranza abbiamo il terreno fertile per ogni problema in Medio Oriente. Dobbiamo innanzitutto affrontare il conflitto tra palestinesi e israeliani e poi è necessaria più democratizzazione nel mondo arabo. Abbiamo un buon modello, l’Europa nel passato e nel presente, dove i paesi non si combattono più ma cooperano. Anche noi ne abbiamo bisogno, come palestinesi e nel mondo arabo: più pluralismo, apertura, diritti alle donne, rispetto dei diritti umani. Ovviamente va detto che come palestinesi ci si chiede di avere maggiore democrazia nelle nostre istituzioni che sono però sotto occupazione, e questa è una situazione abnormale. Per questo dico all’Europa: è tempo di riconoscere lo Stato di Palestina, accanto allo Stato di Israele, è tempo per l’Europa di prendere con coraggio la guida morale e colmare questo vuoto. È tempo per l’Europa di ascoltare la voce di Papa Francesco. Il presidente Mahmoud Abbas visiterà Bruxelles il 22 gennaio e io faccio appello ai leader europei di ascoltare la voce di Sua Santità e sostenerlo per una vera pace nella Terra Santa».

 

L’ambasciatore palestinese conclude ricordando la visita del Papa nel 2014, la sua sosta davanti al muro che separa Betlemme da Israele, «la Natività dal Santo sepolcro», l’appello di Francesco per «costruire ponti e non muri», e il successivo incontro di invocazione per la pace che si svolse nei giardini del Vaticano con Abu Mazen, l’allora presidente israeliano Shimon Peres, nonché il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo: «In quell’occasione piantarono un albero di ulivo come simbolo di pace. L’altro giorno sono andato lì con la mia famiglia, con i miei figli, per dire loro che questo albero cresce così come cresce la speranza e cresce la pace. Non ho dubbi che alla fine i semi porteranno frutti per tutti».

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