Cara Maria, sono un padre, ho 46 anni e un figlio che è la ragione della mia vita. Ha 10 anni e ne sono sempre stato orgoglioso, ma adesso sono in crisi. Soprattutto con me stesso. Vengo da una famiglia patriarcale, sono cresciuto in un paese sulle montagne vicino a Pescara, ma adesso vivo a Milano dove ho anche studiato all’Università. Ti dico questo per spiegarti meglio chi sono, le mie origini, dove cerco le ragioni del mio tormento. Ma forse è meglio che sia più chiaro sul perché ti scrivo. Mio figlio ama la danza e vuole fare il ballerino classico, il suo sogno è entrare alla Scala. Mia moglie lo aveva iscritto qualche anno fa a un corso propedeutico alla danza e lui era felice. Ma io ho fatto di tutto per farlo smettere. Non imponendomi, con fermezza, ma lavorando ai fianchi. Gli ho fatto promesse, l’ho portato tutte le domeniche allo stadio o a giocare a pallone con gli amici al parco. L’ho iscritto a una scuola di arti marziali e anche di pallanuoto. Spiegandogli che c’era tempo per fare la danza e che soprattutto per i maschi era meglio iniziare da più grandi quando le ossa del corpo fossero state più forti. Insomma, gli ho mentito facendogli credere che accompagnavo il suo sogno. Lui è un bambino ubbidiente e mi ha seguito anche se la sera lo trovavo nella sua camera a muoversi davanti allo specchio che aveva voluto a tutta parete. Si muove in maniera aggraziata, come è nella vita. E forse è questo che mi preoccupa. Adesso che ha dieci anni insiste di nuovo, vuole andare a scuola di ballo e prepararsi per l’ingresso alla scuola della Scala. Parla anche di Parigi, dell’Opera come se la sua strada la vedesse già chiaramente. Mentre io per lui avrei sognato una strada diversa. E mi vergogno a dirlo, forse un figlio diverso.

GENNARO

Caro Gennaro, risponderti è facile e anche molto veloce: stai sbagliando, devi lasciare che tuo figlio faccia quello che desidera e che segua le sue passioni. E detto questo voglio raccontarti una storia, quella del ballerino siriano Ahmad Joudeh che il primo gennaio di quest’anno ha ballato con Roberto Bolle.


Ahmad è nato nel 1990, in una famiglia di origine palestinese, ed è cresciuto in un campo profughi vicino Damasco. A 8 anni quando vede un gruppo di ragazzine ballare capisce che quello è il suo sogno. Ma il padre vuole infrangerlo a suon di urla e botte. «Mi picchiava con un bastone alle gambe», ha raccontato Ahmad. La madre lo difende, ma questo serve solo a spaccare la famiglia, non a convincere il padre ad accettare la danza e suo figlio. E così Ahmad viene ripudiato. Ma la madre lo incoraggia e lui studia danza a Damasco.


Quando arriva la guerra nel 2011 le bombe distruggono la sua casa, il suo quartiere uccidono amici e parenti, ma lui non smette di ballare sul tetto di una casa di amici usando il muro come sbarra, sfidando le pallottole e le bombe. Tre anni dopo partecipa alla versione araba di So You Think You Can Dance e diventa famoso, soprattutto in Siria dove l’Isis inizia a minacciarlo di morte. Perché un uomo, un buon musulmano non balla. Ma lui non si piega e si tatua sul collo una promessa: Dance or die. Danza o muori. Proprio nel punto dove gli assassini dell’Isis affondano la lama del coltello per tagliare la testa. Quelle voleva fossero le sue ultime parole davanti al boia.

Porta in scena una sua coreografia sul palco dell’antico teatro romano di Palmira, lo stesso dove Isis ha costretto 25 ragazzini a uccidere 25 prigionieri. La sua storia è stata raccontata in un documentario dal giornalista olandese, Roozbeh Kaboly e Ahmad è diventato un simbolo, di libertà, pace, coraggio. Viene ammesso al Dutch National Ballet di Amsterdam. Ed è qui che incontra il suo mito, Roberto Bolle. Diventano amici e il primo gennaio hanno ballato insieme sul palco di «Roberto Bolle-Danza con me» in onda sulla Rai.

Il padre alla fine di uno spettacolo lo ha raggiunto in camerino chiedendogli scusa. Dance or die. Credo che in questa storia ci sia la risposta che cerchi caro Gennaro.