Più che “un’americana a Pechino”, la nuova Jeep Grand Commander è una cinese col passaporto yankee: un’auto pensata, costruita e commercializzata nella Repubblica Popolare; quindi un’altra vettura da aggiungere alla lista dei prodotti poco simpatici a Donald Trump, dopo la Saleen S1. Si tratta della trasposizione in serie della concept Yuntu, il primo prototipo ibrido plug-in (con batterie ricaricabili alla presa domestica) del costruttore americano, svelato lo scorso anno proprio al Salone di Shanghai. Un modello importante nel primo mercato mondiale; nel 2017, le vendite Jeep nell’area Asia-Pacifico (che include la Cina) sono cresciute del 36% a oltre 240 mila unità.

Il corpo vettura della Grand Commander è squadrato e “condito” con gli stilemi tipici del marchio Jeep, a iniziare dalla calandra frontale a 7 feritoie. L’abitacolo è progettato per ospitare sette passeggeri, disposti su tre file: un’architettura parecchio apprezzata a quelle latitudini. Secondo quanto riportato da Quattroruote, la vettura verrà proposta sul mercato con un 4 cilindri turbobenzina di 2 litri, abbinato alle 4 ruote motrici: soluzione motoristica ben più convenzionale rispetto a quella vista sulla Yuntu.

Il genoma del tutto asiatico della Grand Commander, che arriverà nelle concessionarie nella prima parte del 2018, passa anche dalla sua ossatura: l’auto è infatti costruita su una piattaforma dedicata, sviluppata insieme alla cinese Guangzhou, che si occuperà di costruirla in joint venture presso la fabbrica di Changsha (capoluogo dell'Hunan, una provincia della Cina centro-meridionale). In quest’impianto vengono inoltre realizzate Renegade, Compass e Cherokee, destinate al mercato locale.

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