Giovedì 10 maggio 2018 il Papa si recherà in visita pastorale a Nomaldelfia, nella provincia e nella diocesi di Grosseto, dove incontrerà la Comunità fondata da don Zeno Saltini. Subito dopo si trasferirà a Loppiano (Firenze) nella diocesi di Fiesole, dove visiterà la Cittadella Internazionale del Movimento dei Focolari. Lo comunica il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Greg Burke.

«Se firmate con certezza che Cristo è con voi, anche se le vostre forze sono nulle, vincerete e travolgerete il mondo verso una vita migliore. Non siamo noi che viviamo, ma è Cristo che vive in noi». Così don Zeno Saltini al momento dell’approvazione - il 14 febbraio 1948, a Fossoli, presso Carpi, in borgata San Giovanni - di una singolare “Costituzione”, condivisa allora da una «famiglia» di 623 persone pronte ad approvare un testo tutto ispirato ai valori del Vangelo e poi firmato sull’altare. Con quella carta fondativa, settant’anni fa, l’“Opera Piccoli Apostoli” - dopo aver occupato nei mesi precedenti l’ex campo di concentramento di Fossoli (quello usato dalle SS come anticamera dei lager del Reich, dove transitarono circa 5mila prigionieri politici e razziali) - diventava la comunità di “Nomadelfia” (dal greco «la fraternità è legge», nome che era già un programma) riconfigurando, su quella delle prime comunità cristiane, l’ esperienza già avviata dall’inquieto e tenace Sacerdote. 

Nei fatti si istituiva una sorta di «cittadella», già popolata da oltre 600 minori provenienti da bretrofi e orfanatrofi, incardinata sul principio della «fraternità», in cui non esistevano né proprietà privata dei beni, né retribuzione del lavoro, delineandosi con tratti utopistici - poi però realizzati in un microcosmo - una «via più rapida e più solida per arrivare a una civiltà veramente umana e divinamente cristiana». Insomma una risposta radicale alle istanze di rinnovamento ecclesiale e sociale che in quel tempo si diffondevano: un tentativo - come l’avrebbe definito padre David Maria Turoldo - «di tornare al cristianesimo come vita e non solamente al Cristianesimo come rito, come cerimonia». Se è vero che fra le tante date che contano nella storia di Nomadelfia, si è stabilito di festeggiare come anniversario della fondazione il 22 gennaio (giorno in cui, nel ’33, il vescovo di Carpi Giovanni Pranzini aveva autorizzato don Zeno ad acquistare una prima sede per «Nomadelfia» che però allora si chiamava «Opera Piccoli Apostoli»), e se è vero che in don Zeno tutto si era già avviato nel 1915 (quando aveva riconosciuto il suo destino leggendo le «Beatitudini» nel Vangelo), la data formale con cui venne costituita Nomadelfia con questo preciso nome risale esattamente al 14 febbraio di settant’anni fa.

Ma chi è stato don Zeno Saltini, tra le più grandi figure di sacerdoti del secolo scorso, e, forse, tra le meno conosciute al grande pubblico, nonostante i libri (da quelli di Remo Rinaldi a quelli di Paolo Trionfini), una fiction su di lui trasmessa dalla Rai (nel 2008), l’eco dell’ apertura della causa di beatificazione (nel 2009), un periodico con una tiratura interessante (dal titolo «Nomadelfia è una proposta»)? Chi è stato questo prete del quale don Primo Mazzolari disse: «Rimarrà, nonostante certe incompostezze di temperamento e di linguaggio, uno degli uomini che, agli avamposti, hanno servito con fedeltà la causa della Chiesa e dei poveri»? 

Modenese, nato il 30 agosto 1900 a Fossoli da una famiglia di agricoltori benestanti, a 14 anni abbandona la scuola e lavora nei poderi di famiglia conoscendo la realtà dei braccianti, assistendo alle diatribe fra propagandisti socialisti e cattolici. Ventenne, soldato di leva come telegrafista a Firenze, assai ostico alla disciplina, in caserma si scontra con un anarchico che dileggia la Chiesa e il Vangelo come freni per la giustizia e il progresso, senza riuscire a tenergli testa. Fa una scelta radicale: «Gli risponderò con la mia vita. Cambio civiltà cominciando da me stesso. Per tutta la vita non voglio più essere né servo né padrone». Rientrato a casa, riprende gli studi (si laureerà in Giurisprudenza alla Cattolica nel ’29 con l’intenzione di fare l’avvocato di chi non può permetterselo), poi nella convinzione che «curare è bene, prevenire è meglio», dopo aver cominciato ad occuparsi di ragazzi in difficoltà e a seguire l’Azione cattolica carpigiana dal ’21 al ’29 anche come Presidente («...lavoravo molto nella gioventù cattolica, ma non affrontavano il problema impostato da Cristo di essere fratelli, l’uno per l’altro tanto da dimostrare che il cristianesimo può creare un mondo nuovo...»), risponde alla chiamata entrando in seminario a 30 anni. 

Già l’anno dopo celebra la sua prima messa. Si presenta all’ordinazione con un ragazzo di 17 anni ex detenuto e senza nessuno, al quale apre la canonica della parrocchia assegnatagli, a San Giacomo Roncole. Danilo - questo il nome – sarà il primo dei suoi quasi 5mila «figli». Altri infatti cominciano ad arrivare subito - bambini abbandonati, orfani di guerra, ragazzi sbandati...- e don Zeno li ospita in una cascina confidando però di veder arrivare presto delle «madri», necessarie soprattutto per i più piccoli e per costituire delle «famiglie». Fonda così l’«Opera dei Piccoli Apostoli» (approvata dal vescovo Carlo De Ferrari già nel ’33 e confermata nel ’37). Non lo ferma neanche il deflagrare della nuova guerra mondiale, e con fatica avanza nel suo progetto. Nel ’41, si presenta da lui Irene Bertoni, una ragazza della parrocchia uscita da casa: sarà la prima «mamma di vocazione». Dopo di lei ecco altre donne pronte a rinunciare a una propria famiglia per accogliere come figli bambini e ragazzi orfani. Una maternità virginea: «Vi assicuro che la mia è stata una vita meravigliosa. Dico sempre: “Signore, ti ringrazio, perché ho provato delle gioie che le nostre mamme che ci hanno messo al mondo non hanno mai provato”», così parecchi anni dopo un’altra mamma di Nomadelfia, Norina Galavotti, una delle donne che, insieme a don Zeno, hanno fatto grande questa particolarissima famiglia. Poi anche alcuni preti si uniscono a don Saltini. L’«Opera dei Piccoli Apostoli» si ingrandisce anche grazie a diverse iniziative che la fanno conoscere. Nel ’43, con l’armistizio dell’8 settembre, i tedeschi occupano l’Italia. Don Zeno che aveva preso posizione contro il fascismo, le leggi razziali, la guerra, arrestato e poi rilasciato a furor di popolo, ripara al Sud. Non pochi i fascisti intenzionati a fargli pagare caro i suoi appelli. Così il Sacerdote passa le linee e raggiunge il sud con alcuni ex prigionieri neozelandesi e venticinque «Piccoli Apostoli» altrimenti destinati alla deportazione. Altri entrano nelle formazioni partigiane o nelle reti clandestine di soccorso a perseguitati politici ed ebrei. Tragico il bilancio alla fine del conflitto che reca la macabra firma delle «Brigate Nere»: un prete fucilato; sei ragazzi impiccati; uno morto da partigiano; l’altro in Germania, deportato in un lager. 

Appena finita la guerra don Zeno può tornare a concentrarsi davvero su quanto gli sta a cuore. Nel ’47, i «Piccoli Apostoli» occupano l’ex campo di concentramento di Fossoli. Abbattono muraglie e reticolati. Si sistemano in ambienti dove si leggono scritte e graffiti segni di tragedie. E quel posto più simile a una «Via crucis» diventa il tabernacolo dove «la fraternità è legge». Accanto alle famiglie di «madri di vocazione» si formano le prime famiglie di sposi, che chiedono a don Zeno di poter accogliere i «figli dell’abbandono», coppie capaci dello stesso amore per i figli che sarebbero venuti e quelli con documenti che avevano ancora scritto «figlio di N.N.». Non solo. Nel 1950 da Nomadelfia parte una proposta politica con il «Movimento della fraternità umana»: gli obiettivi sono l’abolizione di ogni sfruttamento e la promozione di una democrazia diretta. Larghe frange degli ambienti politici ed ecclesiastici non nascondono la loro ostilità all’iniziativa. Lo stesso governo guidato dalla Democrazia cristiana l’avversa. Don Zeno crea scompiglio, provoca polemiche. E, dal momento che la situazione economica della comunità precipita, si va verso lo scioglimento. Al tempo delle speranze immense, segue quello delle delusioni lancinanti per quest’opera «nata nel cuore di Cristo» (parole del vescovo di Carpi Federico Dalla Zuanna, al governo della diocesi dal ‘41 al ‘52, quando dovette rinunciarvi per l’opposizione incontrata nella difesa di Nomadelfia). Don Zeno - indebitatosi per comprare terreni su cui far espandere la comunità —viene persino processato (poi assolto) per truffa e millantato credito.

Diffidenze e sospetti si moltiplicano. Nomadelfia va verso lo smantellamento. Per i minori, tolti alle famiglie adottive, si paventa il ritorno nei bretrofi. La situazione finanziaria precipita, i creditori sono spaventati, i milioni arrivati prima da tanti benefattori non ci sono più anche se non manca chi come padre David Maria Turoldo e altri, proprio in questi anni, coinvolgendo i capitani delle industrie milanesi in ascesa - Visconti di Modrone, Falck, Bracco, Pirelli, ecc. - continua a spendere ogni energia per aiutare don Zeno, mentre la sua «rivoluzione cristiana» affascina uomini come Nando Fabro, Mario Gozzini, Danilo Dolci, Andrea Gaggero, Umberto Vivarelli, Giovanni Vannucci, Luisito Bianchi, ecc.. Dal Sant’Ufficio, purtroppo, il cardinale Giuseppe Pizzardo ordina a don Zeno di lasciare la comunità. Lui obbedisce. Il 5 febbraio ’52 scrive ai suoi «Mi mandò la Chiesa a voi; e ora la Chiesa mi strappa a voi. Non vi sono più Padre. Sono un sacerdote in cerca di una diocesi, e sono un uomo tra i più infelici della terra». 

I «nomadelfi» si rifugiano nella Maremma grossetana, su una vasta tenuta con centinaia di ettari da bonificare, donata dalla contessa Maria Giovanna Albertoni Pirelli. Si arrangiano la maggior parte sotto tende. Pur lontano don Zeno cerca di provvedere alle loro necessità, e per poter tornare con loro - circa 400 dopo la dispersione - nel ‘53 chiede a Pio XII di poter rinunciare temporaneamente all’esercizio del sacerdozio. La laicizzazione «pro gratia» non viene negata. Nel frattempo l’avventura di Nomadelfia continua. Si costituiscono «famiglie allargate» , ovvero gruppi fatti di quattro-cinque nuclei familiari che condividono gli spazi della quotidianità. Inoltre i «nomadelfi» si danno una nuova Costituzione come associazione civile e Nomadelfia diventa anche parrocchia. A guidarla lo stesso don Zeno che nel ’62, anche grazie a monsignor Alfredo Cavagna, latore delle sue afflizioni presso Giovanni XXIII (del quale era confessore), viene riammesso al sacerdozio. 

L’avventura di Nomadelfia continua. Sorgono nuove iniziative come le «Serate di Nomadelfia», spettacoli itineranti attraverso i quali - specie attraverso la danza - questo popolo racconta il suo modo di «stare nel mondo». Nel ‘68 i «nomadelfi» ottengono dal Ministero della Pubblica Istruzione di educare i propri figli sotto la loro responsabilità. Così a Nomadelfia a insegnare sono i genitori, aiutati da qualche docente esterno e i ragazzi si presentano come privatisti agli esami di Stato (come avviene anche oggi, con un sistema che non prevede né promozioni né bocciature, i programmi sono sviluppati secondo determinate linee pedagogiche, la frequenza è obbligatoria fino a 18 anni e non pochi escono però per andare all’Università). 

Don Zeno si spegne il 15 gennaio 1981. In punto di morte dice ai suoi «figli» : «Farete cose che nessuno ha mai pensato» e «Lascio al mondo Nomadelfia perchè ne avrà bisogno». In quel momento Giovanni Paolo II riceve una delegazione di «nomadelfi» insieme ai quali prega per lui: otto anni dopo Papa Wojtyla visiterà Nomadelfia e la definirà «una parrocchia che si ispira al modello delle prime comunità cristiane descritte negli Atti degli Apostoli» e «una società che prepara le sue leggi ispirandosi agli ideali predicati da Cristo». 

E oggi? Convinti di offrire una proposta ancora attuabile i membri di Nomadelfia continuano a scommettere sull’utopia cristiana. «Tra tanto cristianesimo edulcorato, smussato, ridotto alla misura dell’uomo medio, pare qui scorgere un’oasi di cristianesimo integrale: con tutto ciò - va da sé - che vi è di arrischiato, di pericoloso, di scandaloso anche per l’uomo della civiltà del benessere», aveva scritto Arturo Carlo Jemolo. È ancora così? Lo sguardo dovrebbe abbracciare circa 300 persone: una cinquantina di famiglie radunate in gruppi (non permanenti e ricomposti, ogni tre anni, per consentire la massima fraternizzazione). Un piccolo popolo, una sorta di «Stato» dentro lo «Stato», dove come alle origini, ancora tutti i beni sono in comune, non c’è proprietà privata, non gira denaro. Dove, essendo ormai anziane le poche «mamme di vocazione» rimaste, la disponibilità delle famiglie ad accogliere figli in affido che giungono dai servizi sociali e dalle autorità giudiziarie, ma anche di anziani e persone sole, è massima. Dove nessuno esercita una professione fuori e si lavora soprattutto la terra (agricoltura biologica, con tanto di stalle, cantina, frantoio, caseificio...). Ovviamente senza stipendio (nel senso che viene versato alla comunità che li usa per soddisfare le necessità di tutti). Non ci sono dunque datori di lavoro esterni, non ci sono dipendenti, e tutti sono corresponsabili. Nessuno sciopero. Assenteismo zero. Una cittadella dove la vita sociale è governata da dieci «organi costituzionali» (le cariche sono state recentemente rinnovate con voto di unanimità da parte dell’Assemblea - composta da tutti i «nomadelfi» - per il quadriennio 2017-2021). Dove non sono ammesse liti e i contrasti si risolvono con la correzione fraterna e il perdono dopo l’esame di un «Consiglio dei Giudici». Dove i Gruppi di famiglie hanno una casa centrale per cucinare, mangiare, fare attività comune, e si va a dormire tutt’attorno in casette separate. Un posto pieno di verde, ma dove occorre scordarsi le vetrine dei negozi (solo magazzini) e uno spirito di sobrietà (ovunque) permea tutto. Chi ha fatto paragoni con i kibbutz, gli Amish negli Stati Uniti o altre esperienze luddiste o simili è però fuori strada. Perché Nomadelfia pur vivendo nel proprio mondo lo fa con le porte aperte, manifestando un interesse a tutto quanto accade nel Paese (compresa la politica oggetto di riflessione comune sino alla convergenza - alla vigilia delle elezioni - sui candidati più attendibili quanto a promesse a favore dell’equità sociale e della famiglia). E senza aspirazioni all’isolamento. 

Da un po’ di tempo a questa parte, per esempio, proprio qui si fanno esperienze non solo come i campi-scuola, ma pure varie forme di alternanza scuola-lavoro. 

Da qui parte ogni estate una tournée di un paio di mesi con almeno la metà dei «nomadelfi» in giro per l’Italia con le loro «Serate» nelle piazze (ma anche nelle carceri, nelle case di riposo, persino negli ospedali psichiatrici.), occasione di incontro con tanta gente che sovente li ospita. E non sono pochi i ponti lanciati da Nomadelfia verso il Libano o la Tanzania per fare solo due esempi. Certo, possono fare discutere scelte interne adottate a Nomadelfia. Per esempio sull’uso dei media come la tv o internet se è vero che l’accesso al piccolo schermo resta legato alla sola informazione, mentre si opera una scelta dei programmi, trasmessi via cavo dalla emittente interna e depurati dalla pubblicità ritenuta diseducativa.

Oppure sulla scuola dentro Nomadelfia: come intendere oggi le parole pronunciate da don Zeno che nel ’72 affermava «Perché abbiamo voluto una nostra scuola? Perché i figli siano educati cristianamente sotto tutti gli aspetti: in famiglia, nell’aula, sul lavoro, nella ricreazione, dappertutto». Come accade per altre comunità - per così dire protette- non tutti convergono su quelle che appaiono come limitazioni o rassicuranti censure. Di certo i ragazzi che vivono a Nomadelfia non hanno accesso alle forme ricreative dei loro coetani di fuori.

Detto ciò «nomadelfi», ça va sans dire, non si nasce, ma si diventa e per scelta.

 Possono esserlo, dai 21 anni in poi quanti, cattolici professanti «rinunciano a possedere beni a qualsiasi titolo e di qualsiasi natura - accettano di essere poveri nel senso di avere solo il necessario a una vita dignitosa». «Molti figli, raggiunta la maggiore età, escono dalla Comunità. Coloro che desiderano diventare nomadelfi, compresi i figli, devono chiedere di essere ammessi a un periodo di prova della durata di tre anni. Al termine della prova, se accettati, firmano la Costituzione sull’altare davanti a tutto il popolo. Chi si fa nomadelfo si impegna per tutta la vita. Tuttavia è libero di ritirarsi in qualsiasi momento se non avverte più sintonia con lo spirito di Nomadelfia», spiega il sito della Comunità impegnata anche ad aiutare nei primi tempi l’uscita (cosa che non avviene in altre realtà per così dire radicali). 

Certo, per quanto concerne la confessione religiosa: «Nomadelfia è fondata sulla fede cattolica. La Chiesa l’ha riconosciuta una popolazione e l’ha eretta a parrocchia nel 1962. Nel 1994 ha approvato la nuova Costituzione, come Associazione privata tra fedeli». Per quanto riguarda «culto, dottrina e costume, Nomadelfia si rimette alla dottrina, al culto e al costume della Chiesa». Sarà sempre così? O potrà allargarsi ad altre opzioni? 

«Il vostro patrimonio spirituale è legato in modo speciale alla vita di fraternità, caratterizzata in particolare dall’accoglienza ai bambini e dalla cura tutta speciale per gli anziani», con queste parole papa Francesco si rivolgeva ai membri della comunità Nomadelfia, ricevuti in Vaticano il 17 dicembre 2016 insieme al loro presidente Francesco Materazzo e a don Ferdinando, successore di don Zeno. E ancora: «Vi incoraggio a dare alla società questo esempio di sollecitudine e di tenerezza tanto importante. I bambini e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli: i bambini, perché porteranno avanti la storia; gli anziani, perché trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita. Non stancatevi di coltivare e alimentare questo dialogo tra le generazioni, facendo della fede la vostra stella polare e della Parola di Dio la lezione principale da assimilare e vivere nella concretezza della vita quotidiana». 

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