Paolo Cognetti è una montagna, è un quartiere della periferia di Milano, un canyon di cemento lungo le vie di New York. L’ultimo vincitore del premio Strega è uno degli scrittori che meglio racconta e più si identifica con i luoghi che attraversa. Una simbiosi che lo porta a viverli con una sensibilità speciale e dunque a saperli vedere con quell’occhio che solo la letteratura riesce ad adoperare. Ora che abita per lunghi mesi nella sua baita è diventato anche il promotore di battaglie chiave sull’ambiente e sulla natura. Nell’anno nero del cambiamento climatico, dove i segnali di un tempo impazzito sono entrati nelle nostre vite in maniera prepotente e non più negabile, è l’interlocutore perfetto per raccontare quello che accade e aiutarci a capire quale percezione c’è in Italia e in chi ci governerà.

Perché nonostante tutti i campanelli di allarme i pericoli che vengono dal cambiamento climatico sono assenti dalla tribuna politica?

«Purtroppo non portano voti. Siamo un Paese urbano e questi temi ci sembrano distanti, assenti dal quotidiano. Non vediamo  questi  inverni  caldissimi, l’emergenza acqua, le estati ormai tropicali come un vero problema. La politica nazionale oggi parla solo di due cose: soldi e immigrati (come pericolo)».

Cosa significa oggi occuparsi di natura?

«Ci sono due aspetti. Innanzi tutto il lavoro, allevamento e agricoltura: chi sta a contatto con la terra si accorge benissimo di quello che sta accadendo. L’economia che ruota attorno a questo mondo deve essere preservata: penso, per esempio agli alpeggi, che se vengono spopolati muoiono».

Il secondo aspetto?

«I parchi, decidere come occuparsi dei boschi: abbiamo un patrimonio meraviglioso del quale nessuno si cura e rischiamo di distruggerlo. Nemmeno le amministrazioni locali lavorano come dovrebbero: prendiamo il caso dei torrenti, li intubano e nessuno dice niente, nessuno intuisce il rischio dietro queste scelte».

Di recente ha aperto una polemica sulla costruzione di impianti da sci nella tua valle. Cosa l’ha spinta?

«Quel modello di sfruttamento della montagna non è più sostenibile, andiamo verso un altro clima e lo sci non può più essere l’unica via attorno alla quale far ruotare questi ecosistemi, che adesso sono delicatissimi e in pericolo».

Cosa servirebbe per cambiare prospettiva?

«Una piccola rivoluzione culturale, far capire alla gente che parlare di natura non è retrogrado, non è un tema vecchio. Una volta quando Mario Rigoni Stern iniziò ad occuparsi di questi temi sembrava bizzarro, adesso giustamente è un autore di culto e i suoi libri, le sue argomentazioni sono modernissime».

Le grandi potenze, penso agli Stati Uniti, stanno tradendo gli accordi di Parigi, e non sono i soli: riesce comunque ad essere ottimista per il futuro?

«Vorrei esserlo, anche se è complicato. Ma non mi arrendo, raccontare è un primo passo, siamo sempre di più a scrivere di montagna e di ambiente con una prospettiva diversa e le nuove generazioni sono più sensibili di chi ci governa a questi temi».

Lei ha vissuto un’esperienza politica di base a Milano. Che ricordo ha?

«Mi sono impegnato in un circolo culturale. Quando ho dovuto scegliere dove vivere ho preso casa alla Bovisa in periferia, io vengo dalla piccola borghesia ma mi piaceva l’idea di provare a costruire qualcosa di nuovo dal basso. Dare una mano, impegnarmi in prima persona. Ma adesso sono deluso».

Perché?

«Non ho perso la passione, ma è subentrata una sorta di stanchezza. Tu provi a lavorare per un progetto comune e le istituzioni ti boicottano o nella migliore delle ipotesi ti ignorano. Alla Bovisa tutto quello che c’era di bello è ormai chiuso o sta chiudendo. È molto triste».

Oltre all’ambiente cosa chiederebbe a chi ci governerà?

«Mi piacerebbe che ci fosse qualcuno con un progetto forte sull’immigrazione, un’idea di futuro. Io amo molto New York, la considero il capolavoro del Novecento, e vorrei vivere in una società aperta, tollerante, multietnica. Invece di sentire “fermiamoli” o “aiutiamoli a casa loro” vorrei che la politica immaginasse come vivremo insieme nel prossimo secolo, perché è questo che succederà. Secondo me è il vero dovere dei nostri tempi e la politica non lo sta facendo. Esattamente come con il cambiamento climatico. Per questo motivo non voto».

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