Tra i capi del centrodestra, «pareggio» è una parolaccia. Considerano il trionfo tuttora alla portata, e i berlusconiani addirittura si guardano già in cagnesco per la futura spartizione delle cadreghe. Fino al 4 marzo le tenteranno tutte per vincere, del resto chiunque al posto loro ci proverebbe. Poi, quel che sarà, sarà. Interpellato su possibili «piani B», il Cav ha svicolato come solo lui sa fare. Garantendo che senza maggioranze torneremmo alle urne, dunque pazienza se nel frattempo Gentiloni si trattenesse a Palazzo Chigi per qualche mese in più. In realtà l’ex premier sa benissimo (Gianni Letta è lì apposta) che il Colle non considera affatto l’ipotesi di rivotare. Rischieremmo un esito in fotocopia. Tra l’altro, nuove elezioni quando? A Ferragosto? Oppure in autunno, con la legge Finanziaria da fare? Non se ne parla. Nell’ottica del Quirinale, i partiti dovranno assumersi le loro responsabilità davanti al paese.

E allora, tra la destra qualche riflessione sul «dopo» si sta facendo. Ad esempio, nessuno pensa seriamente che si possa sciogliere l’alleanza. L’ipotesi di Salvini coi Cinquestelle è giudicata fantasiosa dagli stessi forzisti; idem tra i salviniani che Berlusconi si precipiti nelle braccia di Renzi. Forza Italia e Lega resteranno insieme anche in caso di larghe intese: su questo c’è largo consenso nel centrodestra. Non per amore ma per calcolo di convenienza. Solo uniti, i rispettivi leader potranno contare qualcosa. Nel peggiore dei casi varranno insieme 280 seggi alla Camera, 140 al Senato. Divisi, sarebbero sovrastati dal Pd o (nel caso della Lega) dai Cinquestelle.

Ciò reca con sé due corollari. Il primo: Berlusconi non accetterebbe alcun veto Pd su Salvini e Meloni. Qualora Matteo restasse fuori dai giochi, avrebbe campo libero per scatenare la concorrenza a destra. Giorgia idem. Forza Italia verrebbe massacrata proprio come ai tempi del governo Monti, un’esperienza che chi la visse oggi dice: «Mai più». Se responsabilità nazionale dovrà essere, all’appello presidenziale tutti dovranno rispondere «presente». Compresi se possibile i Cinquestelle e, per forza, la Lega. Tra gli strateghi più ascoltati ad Arcore, Renato Brunetta la mette così: «Un’intesa “larga” non basterebbe, ci vorrebbe “larghissima”. Dovrebbe essere davvero una “Grosse grosse koalition”», da fare invidia a quella tedesca.

L’altro corollario è che, perfino se la vittoria dovesse sfuggire, Berlusconi e Salvini uniti sarebbero comunque il raggruppamento maggiore. Sosterrebbero un governo solo a patto di dare le carte, incominciando dal premier. Via perciò Gentiloni, espressione di Renzi, che tra l’altro fa campagna per il Pd. E veto totale su personalità come Carlo Calenda, stimate da Berlusconi ma del tutto indigeste a Salvini. Per nascere, l’ipotetica «larghissima intesa» dovrebbe avere una guida spostata a destra. «In caso contrario», prevede Brunetta, «la “Grosse grosse koalition” non vedrebbe mai la luce.

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