Benjamin Netanyahu ha appena avvertito l’Iran di non varcare più la «sottile linea rossa». Altrimenti «Israele agirà», non solo contro i terroristi, ma «colpirà la stessa Teheran». Il messaggio è già forte di suo. Ma poi il premier israeliano si abbassa e prende da sotto il podio sul palco della sala del Bayerischer Hof a Monaco di Baviera un pezzo di metallo. Lo brandisce e, come a cercare il nemico, scandisce: «Zarif, lo riconosci? È tuo. Non sfidare la risolutezza di Israele».

Netanyahu dice che si tratta di un rottame del drone iraniano che il 10 febbraio gli israeliani hanno abbattuto sui loro cieli. Da lì è scaturito il raid su postazioni di Teheran in Siria. E un F-16 dello Stato ebraico è stato colpito.

«Ci siamo tenuti fuori dalla disputa siriana per sei anni - precisa Netanyahu - ma se il signor Assad ha deciso di invitare l’Iran sul suo territorio», per trasformarlo in una piattaforma di Teheran con basi aeree e uno sbocco sul Mediterraneo, allora «cambia lo status quo». E Israele reagirà.

Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif nel frattempo sbarca in Baviera proveniente dall’India. Interviene quando Netanyahu se ne è da poco andato, ma l’odore del duello, pur se a distanza, è acre. Zarif liquida il nemico come un «fumettista da circo», il cui show «non merita alcun commento, lo fa solo per distogliere l’attenzione dai problemi interni».

Affonda la lama nell’orgoglio militare israeliano ferito: «L’aereo distrutto è un colpo al mito della invincibilità israeliana».

«Noi - dice Zarif - non vogliamo nessuna egemonia regionale, anzi cerchiamo una nuova architettura di sicurezza nel Golfo». Quest’ultima idea resta sospesa per pochi minuti.

La scansa subito Al Jubeir, ministro degli Esteri di Riad, che concludendo il panel riporta il discorso sui temi di Netanyahu dando ancora più plasticamente l’immagine di una convergenza solida fra saudita e israeliani: «L’Iran alimenta il terrorismo. È un fatto: o cambia approccio o continueremo a combatterlo».

Secondo Riad e Gerusalemme Hamas, Hezbollah e gli Houti yemeniti sono rinvigoriti negli ultimi anni. E l’Iran è diventato più sfacciato nel muovere le pedine.

Colpa anche dell’accordo sul nucleare del 2015. Aveva un secondo fine - quello di smorzare le velleità egemoniche iraniane - ma ha fallito. «L’appeasement con l’Iran non può funzionare, non ripetete gli errori del passato», ammonisce Netanyahu ricordando la morbidezza con cui a Monaco nel 1938 vennero trattati i nazisti e sottolineando che «l’Iran è una minaccia anche per l’Europa».

L’elenco dei nodi dell’intesa sul nucleare è lungo: ispezioni monche e parziali, durata limitata e cecità sui missili. Il timore israeliano è che Teheran potrà arrivare a costruire un arsenale atomico appena l’accordo andrà in scadenza (fra 10 anni). «Le parole di Netanyahu non sono accurate, le ispezioni funzionano», replica poco dopo John Kerry, ex segretario di Stato Usa. «Se rigettiamo l’intesa - è la tesi che filtra in alcuni ambienti americani - come potremo avere la fiducia degli iraniani quando discuteremo delle altre questioni calde?» Diritti umani, guerre regionali, dossier dei missili balistici su tutti.

Parole «profetiche» visto che in serata da Washington la Reuters riferisce di una bozza di piano Usa sul nucleare. Mira a coinvolgere gli europei nell’individuare i punti sui quali il Jpcoa è migliorabile; in cambio l’America offre di mantenere le sanzioni in stand-by. È un modo per prendere tempo e arrivare alla deadline del 12 maggio, data fissata da Trump per decidere su misure punitive. Difficile basterà al Netanyahu visto a Monaco.

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