Il cartello colorato recita: «La chiesa è sempre aperta: 7.30 – 22.00». Poi ci sono ben visibili gli orari delle tante messe, che la domenica sono cinque, l’ultima alle 21. «Gli stabilimenti balneari a Ostia chiudono alle 19 e così anche chi è andato al mare o in gita fa a tempo a ritornare e a partecipare», dice don Francesco Pesce, romano, 52 anni, da quasi otto parroco di Santa Maria ai Monti, da qualche mese incaricato anche dell’ufficio diocesano per la pastorale sociale.

 

Nell’Italia delle chiese che riducono le messe e chiudono i battenti, talvolta in polemica per lo scarso afflusso di fedeli, o perché non c’è chi lo custodisca, la cinquecentesca chiesa costruita in seguito al ritrovamento fortuito in un fienile di un affresco che raffigura la Madonna con il Bambino, rappresenta un segnale in controtendenza. La storica parrocchia del Rione Monti, a due passi dal Colosseo, è infatti sempre aperta. «La custodiscono e la sorvegliano tutti, questo quartiere è come un paese – spiega don Pesce – c’è il negoziante qui di fronte che di tanto in tanto entra per una preghiera. In questi otto anni grazie a Dio non è mai successo niente...».

 La chiesa di Santa Maria ai Monti

Gli orari delle messe sono modellati sulle esigenze dei fedeli. Ci sono in zona parecchi uffici? Ecco la messa feriale delle 13.15, all’ora della pausa pranzo. La domenica la gente va in gita? Ecco la messa delle 21, la più frequentata della settimana. Attorno alla parrocchia di Santa Maria ai Monti e alla piazzetta che è il cuore di un quartiere-paese, gravitano diverse categorie di persone. «Ci sono le famiglie romane monticiane, c’è chi lavora negli uffici, c’è un’elite di politici e giornalisti, c’è la movida della sera». Già, la movida dei giovani attirati da locali e localini che affollano il Rione. Per loro, come per tutte le altre persone che ad ogni ora del giorno e della notte passano davanti agli scalini della chiesa, don Francesco non ha particolari “strategie” o programmi missionari. Non usa tecniche di marketing, non inventa iniziative esotiche, né riempie il calendario parrocchiale di iniziative. Non cerca di attirarli con il linguaggio dei “nativi digitali”. Semplicemente tiene la chiesa aperta e ben illuminata, ed è presente in mezzo a loro. Sta in piazza disponibile a parlare a tu per tu.

 

«La piazzetta è anche il centro della parrocchia – racconta don Francesco - Le porte sono aperte, le persone entrano. Non tutte per pregare. Alcuni per avere un momento di riposo, altri per godere della bellezza della chiesa. La sera, durante la movida, ci sono giovani che entrano per darmi una mano a spostare i banchi». Il parroco di Santa Maria ai Monti è sorridente e tranquillo. Per lui la secolarizzazione e la “società liquida” non rappresentano un incubo. «Cento volte meglio la secolarizzazione del clericalismo – dice – io vedo che nella gente c’è ancora sete di spiritualità. Le persone vengono e trovano un punto di riferimento, il Vangelo di un Dio che ti vuole bene, ti accoglie, ti abbraccia. La mia vita trascorre soprattutto qui, così: funziona il colloquio a tu per tu con la persona. Il suo dolore è il tuo dolore. La sua gioia è la tua gioia».

 

E che tutta la vita del parroco si spenda tra la celebrazione dei sacramenti e questi incontri lo si vede da quante persone lo salutano nel Rione. Come il barista che appena lo vede scherzando lo chiama “Padre nostro”. Come la mamma che fa capolino nella trattoria romana dove don Francesco è seduto di fronte a un piatto di spaghetti al pomodoro («Qui si mangia bene peccato soltanto che siano della Roma…», sussurra sorridente il sacerdote che dal padre piemontese ha ereditato un’incrollabile fede juventina digerita con difficoltà da parecchi parrocchiani). La donna è venuta a comperare un cartoccio di pesce fritto «per il pupo che torna da scuola». E domanda al parroco se il pomeriggio il catechismo si farà regolarmente. «Ci sono persone che magari vent’anni fa hanno commesso un errore – riprende don Francesco riferendosi alle famiglie “irregolari” senza mai chiamarle così – e oggi si spendono con dedizione per tirare su i figli tra mille difficoltà. Grazie alla testimonianza “contagiosa” del Papa oggi si sentono accolte, rispettate, amate. Da me mai nessuno è venuto pretendendo la comunione. Tanti invece desiderano cominciare un cammino».

 

Don Pesce è uno di quei preti che hanno preso sul serio la richiesta di Papa Francesco di accogliere qualche migrante o rifugiato in parrocchia. Ha diviso in due la sua vecchia canonica bisognosa di restauri murando un paio di porte, così da ricavare un piccolo appartamentino per accogliere i migranti. Fino a pochi giorni fa ci abitavano due donne, una cristiana e una musulmana. Ora è rimasta solo quest’ultima, Ikram, giunta dopo una fuga rocambolesca dalla Somalia. A lei pensa una rete di volontari della parrocchia, che si tengono in contatto via email. Oggi c’è da procurare alla ragazza un paio di scarpe. «Stasera arriveranno», dice il parroco a Ikram, che ogni mattina alle sette lo attende sulla soglia per offrirgli il caffè e porta ancora negli occhi un carico troppo grande di sofferenze. «Quando qui a Roma si è sentita forte la scossa di terremoto che ha colpito Amatrice – spiega il sacerdote – sono andato a bussare per sapere se tutto andava bene: allora erano in due. Ho trovato la donna cristiana inginocchiata da una parte che recitava il rosario, la donna musulmana inginocchiata sul tappeto rivolta verso la Mecca. Bene, ho detto scherzando, siamo coperti da tutti i lati!».

 

Quella per i poveri è un’attenzione che sta nel Dna della parrocchia. Non potrebbe essere altrimenti, dato che nella chiesa di Santa Maria ai Monti riposano le spoglie di san Benedetto Giuseppe Labre, patrono di mendicanti e senzatetto, il “vagabondo di Dio”, il santo di origini francesi che nella seconda metà del Settecento che viveva all’addiaccio sotto un arco del Colosseo e qui veniva a pregare. Morì a 35 anni nel retrobottega di un macellaio del Rione dopo essersi sentito male sui gradini di questa chiesa. Viveva per strada chiedendo l’elemosina ed era solito ricordare che «in questo mondo siamo tutti pellegrini verso il Paradiso». La sua tomba di marmo è rivestita da una teca di plexiglass con apposite feritoie perché i fedeli possano infilare biglietti e bigliettini con richieste di grazia o ringraziamenti per le grazie ricevute. 

La tomba di marmo che custodisce le spoglie di San Benedetto Giuseppe Labre 

È una vita cristiana semplice quella che fiorisce pur tra mille difficoltà attorno a quest’antico santuario mariano. È il volto di una Chiesa che non ha il problema di condannare o di dar lezioni dall’alto, ma che vuole trasmettere misericordia e salvezza. Sono proprio vere le parole di Pablo Picasso che campeggiano su un manifesto affisso all’ingresso della parrocchia, utilizzate come introduzione di un piccolo blog: «C’è un solo modo di vedere le cose finché qualcuno non ci mostra come guardare con altri occhi».

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