A cinquant’anni dalla rivoluzione studentesca del 1968, caduta pochi anni dopo il grande aggiornamento della Chiesa cattolica promosso dal Concilio Vaticano II (1962-1965), e regnante un Papa, Francesco, che non esita a parlare di riforma ecclesiale e viene considerato da alcuni rivoluzionario, la Pontificia Università Gregoriana ospita da ottobre scorso un ciclo di conferenze dal titolo “1968-2018 per un bilancio teologico sulla Chiesa e il mondo”. L’iniziativa è organizzata dal Centro Fede e Cultura Alberto Hurtado, che ieri, martedì 20 febbraio, ha affrontato il binomio “Rivoluzione e riforma”, senza perdere di vista, come ha concluso il teologo Giuseppe Bonfrate, «un’altra dimensione che precede queste due: quella della profezia».

Dopo l’intervento del filosofo gesuita Paul Gilbert sulle «onde lunghe» della storia giunte sino al maggio sessantottino, nella lettura che ne dette il gesuita francese Michel De Certeau, e in alcuni testi-chiave del Concilio (Sacrosantum Concilium, Lumen Gentium, Gaudium et Spes), Giuseppe Bonfrate, teologo dogmatico, ha spiegato che l’obiettivo della riflessione è quello di «portare il Sessantotto nel presente per vedere cosa del Sessantotto è rimasto» e come le due parole-chiave, rivoluzione e riforma, «possano significare qualcosa dentro il contesto filosofico e teologico cristiano».

Nell’esperienza cristiana «la parola rivoluzione spaventa, eppure non è sempre stato così», basti pensare al Magnificat contenuto nel Vangelo di Luca, laddove si dice che l’Onnipotente «ha rovesciato i potenti dai troni», e in questo senso rivoluzione e riforma «sono due realtà sovrapponibili, non certamente da contrapporre», ha osservato il teologo. Da qui gli interrogativi: «Il cristianesimo ha un elemento rivoluzionario che si è spento nel corso della storia, o invece questo elemento è presente in tutta la sua storia? È’ più facile parlare di riforma?».

Per inquadrare i concetti di rivoluzione e riforma, il professor Bonfrate è tornato indietro all’esilio biblico di Israele, alla scoperta che, lontani dal tempio, il popolo non perde Dio perché Dio li segue o addirittura è dentro di loro, e al successivo affermarsi tra i profeti di una corrente apocalittica, secondo la quale le cose si possono ricomporre dopo la storia: la riforma, in questo senso, significa «rendere la storia conforme a Dio nonostante il peccato dell’uomo». Mentre la rivoluzione nasce dalla convinzione che per rinnovare «dobbiamo aspettare la fine della storia, e allora fare finire in fretta la storia, non la vita cronologica ma quella storia». E «quando Gesù predica la categoria del Regno di Dio rischia di essere incastrato in una o nell’altra di queste due ipotesi».

Secondo Bonfrate, per evitare questo dilemma «nessuno ha più voluto prendere posizione sull’interrogativo se il cristianesimo sia conforme ad una idea di riforma o di rivoluzione». Ma , poi, dopo la grande riforma che chiamiamo controriforma», dopo le «piccole riforme di ritorno alla fedeltà delle origini», «tra Ottocento e Novecento si torna a pensare a queste cose, si abbandona l’idea di rivoluzione»: un concetto apparentato, nel frattempo, alla Rivoluzione francese prima, e, successivamente, a quella bolscevica, e pertanto «per la Chiesa difficile da accettare». Riempiendo magari la parola riforma con contenuti proprio della rivoluzione.

Il teologo ha messo a fuoco, ad esempio, «il problema del rapporto della Chiesa con il mondo e con la modernità»: «Forse si dimentica che quel che è stato ritenuto il nemico, la modernità, era in realtà figlio stesso della Chiesa, un figlio magari cresciuto in autonomia, forse pronto all’abbandono, ma un figlio, non un nemico», ha detto citando il caso Galileo così come rappresentato da Bertold Brecht: lo scienziato che con il cannocchiale invita i suoi accusatori a «guardare» e loro che si rifiutano rispondendo: «Noi sappiamo!».

Nel 1864, poi, Pio IX pubblica il Sillabo che condanna gli «errori» della modernità e la Chiesa «si costruisce un fortino per indicare che dall’altra parte si trova solo il male: ma il suo sapere, scollegandosi dalla realtà, non è più utile alla storia. Se ne accorgeranno quei teologi che, soffrendo, genereranno poi quel tessuto di idee che sarà il Concilio Vaticano II». E 101 anni dopo il Sillabo e la sua ultima proposizione che sanciva che fosse sbagliato ritenere che il Romano Pontefice potesse «riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà», Paolo VI si presenta all’Onu come un uomo, un fratello, che «non ha alcuna potenza temporale» e non ha «alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore». Si presenta, insomma, come amico, non più nemico, del mondo intero: «Cosa è successo – si domanda Bonfrate – una rivoluzione? Una riforma?». E che significato hanno le polemiche ecclesiali scoppiate dopo il Concilio, come mostra, ad esempio, il caso del Catechismo della Chiesa cattolica olandese, considerato poco ortodosso dal Vaticano, riveduto da una commissione mista con correzioni respinte dai vescovi dei Paesi Bassi?

Il Sessantotto ha posto la questione della partecipazione, della rappresentanza, della presa di parola da parte di tutti, che, nella Chiesa, ha un pendant nella «dimensione battesimale che unisce tutti i membri del popolo di Dio» sancita dal Concilio e, nei decenni successivi, un po’ scolorita. Tanto che «ci pare oggi una rivoluzione il fatto che qualcuno, con il nome di Papa Francesco, faccia ciò che il Concilio Vaticano II aveva già pensato, tanto sembra diversa la Chiesa che egli annuncia, eppure non è così. È solo una questione di linguaggio, di stile? No, egli sta mettendo al centro le cose che contano. E noi non abbiamo più alibi», ha detto Bonfrate, concludendo l’incontro moderato dal professor Sandro Barlone.

Durante la serata anche un tributo ad un antico docente della Gregoriana, nonché perito del Concilio, il gesuita Gustave Martelet che, in un libro di inizio anni Sessanta intitolato “Cattolici di sinistra? Cattolici di destra?”, giudicava «inaccettabili» per un cristiano due atteggiamenti: il progressismo, ossia «cambiare per cambiare», e l’integrismo, ossia «scambiare la stabilità dei principi con il mantenimento dello status quo». «La ricerca di un equilibrio tra questi due opposti - ha sottolineato Bonfrate - determinerà l’ermeneutica del Concilio Vaticano II e lo spazio dialettico tra rivoluzione e riforma aprendo ad un’altra dimensione che precede queste due: quella della profezia».

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