A una settimana dal voto di domenica, grande è la confusione che regna sotto il cielo. E grandissima l’impazienza dei corridori in gara di attribuirsi una vittoria che ancora non c’è. Il leader del M5S, Di Maio, s’è presentato al Quirinale preannunciando una lista di ministri prima ancora di aver ricevuto l’incarico e sapere se avrà la maggioranza per governare. L’aspirante premier di centrodestra Salvini è salito sul palco a Milano in giacca e cravatta presidenziali; giurando sul rosario, ha detto che il Vangelo sarà il suo programma. E «Berlusconi presidente», come recita il simbolo della sua lista, continua a far finta che una sentenza non gli impedisca di candidarsi ed essere spendibile per il governo.

Ma è soprattutto tra M5S e centrodestra che lo scontro negli ultimi giorni è diventato senza esclusione di colpi. Nei due schieramenti è diffusa la convinzione che la partita finale si giochi nel Sud, tra Campania e Sicilia, in un pugno di collegi uninominali, chi dice 50, chi ormai 30, dove la vittoria potrebbe andare agli uni o agli altri solo per un pugno di voti.

Se i 5 Stelle, che al Sud sono dati in crescita giorno dopo giorno, riuscissero a prevalere, il centrodestra, pur avvicinandosi, non avrebbe la maggioranza parlamentare. E viceversa: se Berlusconi, Salvini, Meloni e Noi per l’Italia dovessero farcela, centrando in pieno o sfiorando la stessa maggioranza, la sera stessa del risultato sarebbero pronti a chiedere al Quirinale di formare il loro governo.

Il paradosso di questo rush finale è che da entrambe le parti si ragiona come se tutto fosse già accaduto e quel che deve seguire si possa realizzare in pochi giorni. Così Di Maio sostiene apertamente che gli avversari potranno reclamare l’incarico solo se avranno numeri pieni che gli assicurino di potersi presentare alle Camere per chiedere la fiducia. E lascia intendere di avere un coniglio nel cilindro, da tirar fuori al momento opportuno: un governo M5S-Pd-LeU-+Europa, una specie di centrosinistra rivisitato, a cui Renzi e gli altri si adatterebbero per non andare all’opposizione. Quanto a Berlusconi, il più fiero avversario degli «incompetenti», definiti così in tutti i suoi comizi e interviste tv, non prende affatto in considerazione l’ipotesi di una «non vittoria», come quella di Bersani nel 2013, o peggio ancora di subire un sorpasso all’ultima curva da parte del suo alleato Salvini, ciò che cambierebbe completamente il quadro del preteso, finora, successo del centrodestra. Follie, fantasie? In verità sono discorsi a vanvera, destinati a soccombere di fronte ai numeri veri che usciranno dalle urne. Chi li fa, si tratti del giovane Di Maio o dell’attempato Berlusconi, dimostra solo di essere un neofita del proporzionalismo, di non conoscere trucchi, segreti, e soprattutto incognite, del gioco vecchio/nuovo che comincerà la notte del 4 marzo.

Per certi versi, si tratta di una partita inedita. Anche quando il proporzionale era in voga, nella Prima Repubblica, il confine tra le forze di governo e quelle di opposizione - sempre le stesse, da una parte e dall’altra - era segnato da rigide questioni internazionali e dal vento gelato della Guerra Fredda. Tal che, in un modo o nell’altro - salvo eccezioni rimaste nella Storia, come quelle dei governi di solidarietà nazionale degli anni 1976-79 sostenuti anche dal Pci -, l’esecutivo nasceva all’interno del solito recinto della Dc e dei suoi alleati. Stavolta invece la partita sarà a 360 gradi, approcci e rotture verranno praticati da tutti contro tutti, e infinite diventeranno le combinazioni che ciascuno potrà progettare o minacciare per condizionare i movimenti di alleati e avversari.

Ad esempio, l’idea di Di Maio che il Pd e gli alleati del centrosinistra possano acconciarsi a un «accordo di programma» con i 5 Stelle «senza scambi di poltrone», è semplicemente fuori dal mondo: da sempre programmi e composizione del governo sono andati di pari passo, ed è verosimile che fin dall’inizio della trattativa i potenziali alleati chiedano di discutere anche sul presidente del Consiglio. Allo stesso modo la regola del centrodestra - «chi ha un voto in più indicherà il premier» - è scritta sull’acqua: se i numeri dovessero consentire un esecutivo di larghe intese, Berlusconi sarebbe il primo a dimenticarsene, e forse non solo lui. Infine, le strane ipotesi che continuano ad affacciarsi dagli studi televisivi o dalle piazze delle manifestazioni hanno il difetto di fare i conti senza l’oste: il Presidente della Repubblica, che dal 5 marzo sarà il solo a dare le carte e a cercare di riportare i sognatori di oggi al duro impatto con la realtà.