È un’istruzione pastorale intitolata “Rallegratevi con me” dedicata ad «Accogliere, discernere, accompagnare e integrare nella comunità ecclesiale i fedeli divorziati e risposati civilmente». La distribuisce in questi giorni il vescovo di Albano Marcello Semeraro, segretario del C9, il consiglio dei cardinali che aiuta il Papa nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Le peculiarità del documento sono due: si tratta di un’istruzione applicativa ben circoscritta circa il tema – descritto nel sottotitolo – e al tempo stesso corposa, che pur non addentrandosi in alcuna casistica delinea precise linee di principio generali. E si tratta di un documento nato da un’esperienza sinodale diocesana, che ha visto coinvolto tutto il clero.

 

Semeraro ricorda che nei colloqui con i suoi preti è emerso quanti fossero i casi di divorziati risposati civilmente che vivono «in fedeltà la loro relazione coniugale e pure con abnegazione». E che talvolta che questi fedeli stiano «al margine, o nei dintorni delle comunità ecclesiali della diocesi». Per questo il vescovo di Albano ha scelto di non fare «un percorso solitario, ma di compierne uno di nuovo sinodale». E ha chiesto al consiglio presbiterale di dedicare tutte le sedute ordinarie dell’anno pastorale 2016-2017 «alla riflessione, all’approfondimento e al discernimento sulle forme di concreta risposta ai fedeli divorziati e risposati civilmente presenti nelle nostre comunità e ai nostri fratelli e sorelle che domandano una parola di consolazione e di orientamento». I contenuti di queste riflessioni sono stati poi condivisi e discussi con tutto il clero.

 

«Ci siamo resi conto – scrive Semeraro - che l’accoglienza e l’integrazione di chi si avvicina con il desiderio di essere riammesso alla partecipazione della vita ecclesiale comporta un congruo tempo di accompagnamento e di discernimento, che varia da situazione a situazione. Attendere, pertanto, una nuova normativa generale di tipo canonico, uguale per tutti, è assolutamente fuori luogo».

 

L’istruzione precisa bene che, a proposito dell’accesso ai sacramenti, non si tratta di «pensare a un “diritto” acquisito indistintamente da tutti coloro che si trovano nella specifica situazione di essere divorziati risposati civilmente. Si deve, piuttosto, parlare di accoglienza da parte nostra della persona – e della coppia – che non soltanto vive in una relazione concreta, ma che pure ha costituito nel tempo una famiglia. Ora, però, queste persone domandano di compiere un cammino di fede proprio a partire da una presa di coscienza della propria situazione davanti a Dio, rendendosi al tempo stesso disponibili a individuare ciò che ostacola la possibilità di una piena partecipazione alla vita della Chiesa e ad accettare di compiere i passi possibili per favorire e fare crescere l’integrazione in essa». Per vederci chiaro, per discernere, è necessario avvicinarsi e coinvolgersi.

 

«Da parte del vescovo, di un parroco o di un confessore, non si tratta affatto di concedere una sorta di permesso per accedere alla comunità dei fedeli, o più semplicemente per poter fare la comunione. Questo chiarimento è di capitale importanza, anche al fine di non alimentare equivoci nell’opinione pubblica che attraverso taluni media semplifica l’argomento con un categorico: “tutti i divorziati risposati civilmente possono accedere ai sacramenti”. Posta in questi termini la questione è radicalmente fuorviante rispetto all’obbiettivo della nostra azione pastorale».

 

Serve, invece «una reale accoglienza delle persone, dedicando un congruo tempo per conoscerle». Tenendo sempre presente che i divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, le quali, come afferma Amoris laetitia, «non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale». Ciò comporta, scrive Semeraro, «la capacità di leggere la storia personale di ognuno alla luce della Parola e nell’ampio contesto della misericordia di Dio».

 

Il documento pone alcune «premesse indispensabili». La prima è che «non si tratti di una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il vangelo propone per il matrimonio e la famiglia». La seconda è che siano «garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio».

Per questo «sono da escludere coloro che ostentano la propria situazione irregolare e di oggettivo peccato, quasi facendo intendere che la loro situazione non è contraria all’ideale cristiano, oppure mettono i propri desideri individuali al di sopra del bene comune della Chiesa, o peggio ancora, pretendono di perseguire un percorso cristiano diverso da quello insegnato dalla Chiesa».

 

È inoltre importante, secondo l’istruzione, che «vi sia una abituale partecipazione alla vita della comunità parrocchiale, a cominciare da quel segno esterno di presenza che è la partecipazione alla messa domenicale. meglio ancora se accompagnata da altre forme di presenza e di servizio (ad esempio nell’attività della Caritas parrocchiale, nell’assistenza ai malati, nell’attività dell’oratorio, in gruppi familiari, o altri ambiti di vita comunitaria)».

 

Per quanto riguarda il precedente matrimonio, i divorziati che hanno contratto una nuova unione civile «dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia». Ricordando i casi citati in Amoris laetitia, di «quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subìto un abbandono ingiusto, o quello di coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei gli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido».

 

Riguardo invece alla nuova unione, l’istruzione richiede che essa sia «consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe».

 

Per il discernimento, scrive il vescovo di Albano, «decisivo e discriminante è l’esplicito riferimento alla volontà di Dio da compiersi qui ora dal concreto soggetto discernente e operante. Si tratta, infatti, di riconoscere la voce e l’opera di Dio nella propria vita e nella propria storia al fine di rispondergli col rendere la propria vita il più possibile conforme alla sua volontà, conosciuta e amata». È molto importante – continua l’istruzione - verificare da subito questa condizione, indispensabile perché si possa avviare un discernimento spirituale. Un dato, però, che rassicura circa la presenza di questa disposizione, interiore ed esteriore, di ricerca della volontà di Dio e di amore alla Chiesa è la decisione di lasciarsi guidare nel discernimento da persona esperta, sapiente e idonea».

 

Semeraro tocca anche il tema dello “scandalo” verso gli altri fedeli. «Dovendo valutare se un determinato atto è, o meno “di scandalo” non si può trascurare la domanda se chi agisce ha la volontà di spingere altri a peccare... Come si vede, si tratta sempre di comporre armonicamente elementi di ordine oggettivo e altri di ordine soggettivo». Appare peraltro «alquanto azzardato ritenere a priori “scandalosi” – ossia spinti dalla volontà d’indurre gli altri a peccare – quanti hanno affrontato, in mezzo a tante sofferenze e mai con leggerezza, profonde lacerazioni nella loro vita di coppia! Chi è, o è stato vicino a questi drammi familiari e personali è testimone dei dolori e delle angosce che affliggono chi ne è coinvolto».

Il vescovo ribadisce che Amoris laetitia «non parla mai di un “permesso” generalizzato per accedere ai sacramenti da parte di tutti i divorziati risposati civilmente; nemmeno dice che il cammino di conversione iniziato con coloro che lo desiderano debba portare necessariamente all’accesso ai sacramenti».

 

Alla luce di tutte le premesse, «compito e dovere del sacerdote è: indicare al fedele l’orizzonte morale della vita cristiana; aiutare la persona a cogliere quanto dipende e quanto non dipende da lei nella situazione che sta vivendo in quel momento; evidenziare qual è l’ambito delle sue responsabilità concrete; sostenere e indirizzare la persona verso le risorse spirituali necessarie per la ricerca sincera della volontà di Dio e per la conformità ad essa».

 

Quindi il prete deve «proporre i possibili passi da compiere tenendo sempre presenti i condizionamenti e le circostanze attenuanti che possono limitare e compromettere la libertà nelle scelte e la capacità di decisione. Non si dimentichi che l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali».

 

Bisogna «essere consapevoli che non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivono in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante», come afferma Amoris laetitia. Al tempo stesso bisogna agire «facendo attenzione a non far passare l’idea sbagliata che una possibile ammissione ai sacramenti sia un semplice pro forma e che qualsiasi situazione possa giusti care tale decisione. Dobbiamo imparare ad avere la pazienza di valutare la realtà di volta in volta e caso per caso, dedicando tempo e compiendo scelte per gradi».

 

Il vescovo di Albano pone in chiusura del documento un testo di sant’Agostino dove si legge: «Se svegli la tua fede e consideri che cosa sia realmente Cristo, e badi non solo a quello che fece, ma pure a quello che soffrì, allora vedi che egli fu certo forte, ma fu pure debole: ebbe la forza del Figlio di Dio e la debolezza dell’essere vero uomo. Egli, poi, è capo della Chiesa che è il suo corpo. Ecco il Cristo totale: capo e corpo. Perciò anche la Chiesa comprende in sé, come Cristo, forti e deboli; ha in sé chi si nutre di pane sostanzioso e chi deve ancora essere nutrito di latte. La stessa cosa è per i sacramenti: nel ricevere il battesimo e nell’avvicinarsi alla mensa dell’altare nella chiesa si mescolano giusti e peccatori perché il corpo di Cristo è come l’aia dove c’è il grano e c’è la paglia. Solo in futuro sarà granaio, ma ora, in quanto aia non respinge da sé la paglia...». «In quanto aia – conclude Semeraro - ora la Chiesa non respinge da sé la paglia. È quanto oggi dobbiamo fare».

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