Il 4 del mese, ora è evidente, non è un giorno fortunato per Matteo Renzi, visto che le sconfitte più dure (il referendum costituzionale del dicembre 2016 e la disfatta dell’altro ieri) le ha incassate in due domeniche con la data - appunto - del 4 del mese. Ma il 5, evidentemente, fa parte di un’altra storia: e se non è certo il giorno di una rinascita o di un rilancio, è senz’altro la data-simbolo scelta per l’avvio di una nuova e durissima battaglia.

Matteo Renzi, infatti, non si dimette. Forse lo farà più in là, ma a crederci - nello stesso Pd - sono davvero in pochi. E non si dimette perché nella notte del fatidico 4 marzo, mentre la slavina dell’insuccesso si abbatteva su Largo del Nazareno, gli si è manifestato un fantasma, un nuovo nemico da combattere o - forse più realisticamente - un semplice sospetto che però può servire a dare un senso e a giustificare il suo voler restare in campo.

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Dentro il Partito democratico - questa è la certezza di Matteo Renzi - è nato un nuovo partito: il partito di Sergio Mattarella. È nato alle prime luci dell’alba del 5 marzo ed ha registrato subito due iscritti d’eccellenza: Paolo Gentiloni e Dario Franceschini. Primo punto del programma di questo partito, sarebbe lavorare al varo di un governo che veda assieme Movimento Cinque Stelle e Pd. Il secondo punto dl programma è solo la logica conseguenza del primo: isolare e dare scacco matto al segretario in difficoltà. Un partito-fantasma, dunque. Ma con obiettivi assai concreti.

Erano giorni, ormai, che Renzi sentiva scendere dal Colle del Quirinale una brezza che non lo convinceva affatto. E dalla notte di domenica, quella brezza si è trasformata in vento teso: il capo dello Stato, alla luce dei risultati, non esclude la possibilità di un governo del Movimento Cinque Stelle. Ma come elemento di garanzia (verso i mercati, Bruxelles e i grandi investitori) vorrebbe che di quell’esecutivo facessero parte anche ministri del Pd.

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Un rospo difficile da ingoiare per un segretario che aveva chiuso la sua campagna elettorale con due slogan fatti più o meno così: mai al governo con estremisti e populisti; se il Pd non sarà il primo gruppo parlamentare, resterà all’opposizione. Concetti che, se non fossero stati sufficientemente chiari, Renzi ripetuto nella breve conferenza stampa di ieri: che doveva segnare il passo d’addio per il segretario battuto e che si è invece trasformata nel punto di partenza di un percorso lungo e assai accidentato.

Questa, almeno, è la convinzione dei sempre più numerosi (e spavaldi) nemici del segretario. Non è tanto questione che riguardi la già dichiarata minoranza interna di Andrea Orlando, che insiste - con scarse possibilità di successo - soprattutto per una gestione collegiale della fase che dovrà portare alla nascita di un nuovo governo. A registrare le maggiori preoccupazioni sono uomini fino a ieri alleati di Renzi e che oggi vedono nella posizione ribadita dal segretario (mai al governo con i Cinque Stelle) soltanto l’occasione per riaprire uno scontro che potrebbe produrre nuovi strappi e lacerazioni.

Paolo Gentiloni e Dario Franceschini sono stati i primi a valutare legittime le preoccupazioni e le intenzioni del Capo dello Stato. Ma a loro si sono rapidamente accodate altre personalità di primo piano. Per esempio Del Rio e altri esponenti dell’ala cattolica del Pd che - al di là dell’opportunità di stare in un governo a trazione Cinque Stelle - non hanno apprezzato affatto toni e contenuti delle comunicazioni svolte ieri dal segretario.

Gestione non collegiale della crisi, una delegazione per il Quirinale che sarà caratterizzata da due nuovi capigruppo di provata fedeltà renziana e un percorso verso Congresso e primarie lungo e indefinito sono - per questo neonato partito-fantasma - condizioni difficili da accettare. Si aspettavano un’uscita di scena di Renzi fatta di autocritica e discrezione: si sono trovati davanti un segretario che mentre annunciava l’addio elencava ragioni, strumenti e obiettivi per un immediato ritorno.

La preoccupazione vera, a questo punto, riguarda la tenuta del Pd e - soprattutto - le reali intenzioni di Matteo Renzi. Perché questa nuova prova di forza? Il segretario mette nel conto nuove uscite dal partito o - addirittura - potrebbe lasciare lui il Pd, motivando l’abbandono con l’accusa di subalternità a «estremisti e populisti»? Difficile dirlo. Ma certo, nei ragionamenti di molti esponenti del Pd comincia a prendere forma un sospetto: perché Renzi e i suoi fedelissimi si sono tutti candidati al Senato?

Se le cose in casa democratica si mettessero per il peggio, quel folto drappello - in fondo - è lì pronto per due diversi utilizzi. Il primo: costituire una «opposizione di blocco» capace di ostacolare la nascita di qualunque governo. Il secondo: rappresentare il nucleo fondante di una nuova formazione politica. Non più, viste le sconfitte, il tanto temuto Partito della nazione: ma un soggetto che possa comunque permettere a Renzi di continuare la sua battaglia. Sotto altre insegne, certo: ed è un peccato. Ma tutto, proprio tutto, solo e soltanto per colpa di quel maledetto 4, infausto giorno d’inizio mese.

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