La Terza Repubblica di Luigi Di Maio comincia in una piovosa mattina di marzo, il giorno dopo il trionfo, con addosso una maschera di emozione che tradisce i 31 anni del ragazzo di Pomigliano che voleva essere premier. È breve, conciso, Di Maio, attento a non sporcare il suo discorso anche di una sola virgola che potrebbe irritare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il primo ringraziamento va a Beppe Grillo e a Gianroberto Casaleggio, che hanno immaginato tutto questo oltre dieci anni fa, e un po’ suona come un addio. L’addio una storia che ha tante storie quante vite ha avuto il M5S. I populisti di prima che si considerano il grande partito popolare italiano di adesso; il Movimento che ricorda per movenze, dinamiche interne, cinismo e astuzia mediatica, l’imbattibile e sorprendente Forza Italia di Silvio Berlusconi, ma che si tiene agganciata ancora a un cordone ombelicale di sinistra per realizzare il sogno del governo.

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Nel poco tempo che si concede alla telecamere, come un amante che vuole subito scomparire per essere meglio desiderato, Di Maio però deve segnare una distanza netta dal suo grande competitore, il gemello diverso del populismo, con cui forse chiuderà i conti forse no. «Noi rappresentiamo tutto lo Stivale. Siamo primi in Liguria, primi in Emilia Romagna, primi nel Piemonte e nel Lazio dove governiamo. Rappresentiamo l’intera nazione mentre altri rappresentano solo interessi territoriali».

Attenzione: Di Maio non chiede mai l’incarico. Non dice: tocca a noi. Si ferma un attimo prima: dice che per tutti i motivi sopra elencati, per la capacità di penetrare anche le regioni del Nord, quelle storicamente di sinistra, e di conservare consenso anche nelle due metropoli dove i 5 Stelle sono già sistema, per tutti questi motivi il M5S è «inevitabilmente proiettato verso il governo». Inevitabilmente vuol dire che senza il M5S nessuno potrà fare nulla. Ed è questa l’impronta della rivoluzione grillina, il compimento di un destino paradossale: il Movimento che cinque anni fa rifiutò il compromesso con il Pd, costringerà gli altri a scendere a compromessi con loro, ritagliandosi il ruolo di controparte istituzionale mentre Matteo Renzi giocherà a fare i dispetti al Colle e agli avversari.

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La metamorfosi del M5S, la sua dimaizzazione ,matura definitivamente nelle ore che seguono l’ubriacatura da successo. Fino a oggi, quando Di Maio andrà a tuffarsi nella folla della sua Pomigliano, i grillini si sono goduti la vittoria lontano dalle esultanze di piazza, calibrando sempre la stessa parola: «Responsabilità». Ma anche la responsabilità ha un prezzo e Di Maio lo mette bene vista: «Le coalizione non hanno i numeri per governare». Devono fare i conti con lui che si affida a Mattarella, «saprà guidare», e lancia l’ennesimo messaggio tranquillizzante all’Europa, ai mercati (cita gli «investitori» subito dopo «i cittadini»).

La Terza Repubblica di Di Maio, poi, è «post ideologica», come il grillino definisce il risultato del voto: dove le ideologie sono state spazzate vie «dai grandi temi irrisolti della nazione». Che non sono, direbbe lui, né di destra né di sinistra. O forse, sono un po’ di destra, un po’ di sinistra. Cita la povertà, lo sviluppo economico, le tasse, la sicurezza. E ribadendo di essere disponibile a un «confronto aperto a tutti» sulla scelta condivisa di «figure di garanzia per la presidenza delle due camere», scommette sull’ansia di sopravvivenza degli altri partiti per arrivare a completare il miracolo che i puri e semplici numeri non sembrano in grado di garantirgli. Se ce la farà, a convincerli, l’Italia avrà il suo nuovo Partito della Nazione. L’ennesimo.

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