Da pochi giorni è disponibile un volume che raccoglie i contributi dei convegni realizzati nel decennale della morte di Cataldo Naro e ripercorre come il vescovo di Monreale “immaginava e progettava” la riforma della Chiesa, «come intendeva realizzarla e viverla, in stretta connessione con il rinnovamento spirituale e con la conversione pastorale». “Questione di coraggio? Cataldo Naro e la riforma della Chiesa”, è lo studio curato per le edizioni Rubbettino dal teologo sistematico e fratello del vescovo nisseno don Massimo Naro. Un titolo significativo già a partire dall’interrogativo proposto, perché suggerire una riforma della Chiesa non è solo questione di «coraggio» ma si scoprirà lungo il testo, vuol dire anche avere «lungimiranza» secondo la decisiva assistenza dello Spirito.

Realtà che nel testo appaiono intrecciate e incarnate nel vissuto biografico spirituale di Cataldo Naro, ricostruito dagli autori inseriti nel volume, che lasciano emergere l’amore del vescovo nisseno d’origine, per la Chiesa insieme all’esigenza di riforma che egli aveva colto da lungo tempo come uno degli inequivocabili segni dei tempi. Intercettare l’azione dello Spirito, il passaggio di Dio nei discepoli di Cristo e nelle comunità, finanche nella storia dell’umanità, richiede non solo doti di osservazione e analisi storica ma anche un surplus di riflessione teologica e tensione teologale negli interpreti coinvolti.

Il «coraggio» nel dinamismo dello Spirito smette di coincidere con una mera qualità del vivere umano, con una forza che risiede nel profondo del cuore dell’uomo, per divenire possibilità di “visione” lungimirante dell’agire divino nella storia. Sottolineatura avanzata nel contributo di monsignor Marcello Semeraro nel quale il vescovo di Albano spiega opportunamente che la “lungimiranza” «opera nell’area della virtù cardinale della prudenza […] e non si accontenta di rimedi provvisori» (p. 41).

Un paradigma che in Naro si è tradotto in una lettura coraggiosa e profetica della storia della Chiesa del post Concilio, sub luce Evangelii. In lui la questione del “coraggio” si può leggere come espressione, per dirla con Von Balthasar, di un cuore «agonico», tale fino a consegnarsi e «spezzarsi», dopo aver attraversato il tempo della sofferenza, l’ascendere verso la croce dal quale mai è esentato il discepolo di Cristo, e quel seguire e servire il Signore che sempre determina ostacoli e resistenze. In questo orizzonte biografico spirituale matura la visione di riforma della Chiesa secondo Cataldo Naro.

Il punto di partenza: il Concilio

Il suo imprescindibile punto di partenza era il Concilio. Riteneva che non fosse stato ancora pienamente recepito. Nel primo saluto come vescovo della diocesi di Monreale, disse che il Concilio era stato «l’evento più importante della storia della Chiesa nel Novecento” ma non aveva ancora esaurito le sue potenzialità di rinnovamento ecclesiale. Un “luogo” da attenzionare era il «travaso» tra «il piccolo e il grande», cioè tra Chiesa locale, nazionale e mondiale. Non si schierò né per l’ermeneutica della rottura, né per quella della continuità ma volle intendere il Concilio come esigenza di rinnovamento e di riforma, «sulla scorta di Dossetti – scrive Massimo Naro – come un evento di grazia» (p. 11), «un punto di non ritorno».

Il Concilio era per monsignor Naro un evento storico tuttavia, precisa ancora l’autore del libro, era «più sostenuto da una non imbrigliabile gratuità kairologica – che non come collezione di pronunciamenti magisteriali», pertanto il Concilio andava interpretato più sul piano «storico esistenziale» che su quello «intellettuale e dottrinale». In questa luce si legge l’interesse del vescovo Cataldo per il tema della «qualità della fede dei membri» della Chiesa, e l’intuizione di riflettere sul «vissuto credente» e sulla «presenza ecclesiale nella società odierna» (p. 10). Il teologo Massimo Naro spiega che per legame tra fede e vita il fratello non intendeva qualcosa di astratto ma una realtà «impastata della carne dell’essere umano e dello Spirito di Dio». Per questo essa poteva essere «accolta, pensata, vissuta».

Lettura condivisa dallo storico, amico e collega di Naro, Andrea Riccardi che, ricordando le perplessità del presule nisseno sulla «trasmissione della fede dopo il Concilio», cita una lettera che egli inviò a Divo Barsotti, nella quale confessava: «La Chiesa sembra avere trasmesso un generico senso religioso e una mentalità sociale, ma non la conoscenza della fede» (p. 30). Possibilità che rimanda ad un ruolo a volte troppo marginale della Scrittura che il Concilio indicava tuttavia non solo come l’anima della teologia ma anche della vita della Chiesa (DV, 24). Giustamente l’ecclesiologo e preside emerito della Facoltà Teologica di Palermo don Rino La Delfa ha sottolineato che «il pensare» di Cataldo Naro era «sotto il presidio della Parola», da quest’osmosi si dischiudevano «scenari ecclesiologicamente validi per l’individuazione di scelte e decisioni pastorali efficaci, di cammini di fede congrui e di risposte aderenti alle istanze sollevate dal tempo presente» (p. 61).

Naro leggeva il processo storico come accompagnato dalla presenza dello Spirito, ritenendo che pertanto dovesse essere colto anche nella sua valenza teologica. Sfumatura sviluppata nel saggio di don Francesco Lo Manto, preside della Facoltà Teologica di Sicilia e docente di storia della Chiesa, per il quale così Naro provava ad intercettare i segni della presenza dello Spirito. In questa prospettiva il vescovo vedeva un nesso di convergenza tra vita e testimonianza delle «personalità spirituali» e la riforma della Chiesa. Esse l’avevano preparata, lasciando nella storia un fermento: «Attraverso l’analisi del vissuto delle personalità spirituali e delle Chiese locali tende a scoprire l’azione dello Spirito nella Chiesa, nell’uomo e negli avvenimenti della storia (p. 82). Rilevava così il «primato del rinnovamento della vita spirituale rispetto alla riorganizzazione strutturale, che riteneva pure essenziale» (p. 82). Il tema del vissuto credente e della trasmissione della fede alle nuove generazioni aveva ispirato la sua linea pastorale, come spiega ottimamente nel suo contributo don Giuseppe Alcamo.

Quale riforma?

Per riforma egli intendeva «riplasmare la fisionomia della Chiesa», ma «non per stravolgerne i connotati, ma anzi per conservarli, ringiovanendoli e, come suggerisce Lumen Gentium n. 8, purificandoli continuamente». Una riforma che interpretasse l’evangelizzazione secondo una costante «tensione dialogica». Spiega Massimo Naro: «La Chiesa esiste per annunciare Dio, non per parlare di se, ne per parlarsi addosso. Piuttosto per parlare di Dio al mondo e col mondo. Questo significava, fondamentalmente, a suo parere, riformare la Chiesa assecondando l’invito conciliare a stare nel mondo e a rapportarsi finalmente con esso e perciò stesso ad accorgersi una buona volta di essere altro rispetto al mondo, di non potersi e di non doversi confondere con esso» (p. 12).

Altri passaggi importanti dovevano riguardare la «chiesa locale», la «rivisitazione della pietà popolare», la «declericalizzazione della prassi cristiana» e la «responsabilità pienamente ecclesiale dei laici». Tematiche che sembrano richiamare diversi passaggi contenuti nella Evangeli Gaudium, testo programmatico del pontificato di Francesco.

La figura del vescovo

La riforma doveva riguardare anche la figura del vescovo. Per Cataldo Naro il pastore non doveva perdere il legame con la storia della sua diocesi e doveva ripercorrere il cammino della successione che lo aveva preceduto. Per questo, anche lui da neo eletto vescovo di Monreale, volle andare a riprendere la storia dei suoi predecessori, in particolar modo di quelli, come monsignor Antonio Augusto Intreccialagli, morti in fama di santità. Ecco un percorso per legare il passato al presente e così aprirsi al futuro, come aveva insegnato il Concilio. Confessava a qualche amico: «La meraviglia sarebbe se il sommovimento del Vaticano II non avesse toccato la figura del vescovo».

Riccardi precisa che secondo Naro una nuova interpretazione del ruolo pastorale del vescovo era una questione di “ritorno” al Vangelo: «Sulla scorta di don Milani, Naro aveva compreso che essere vescovo, in un tempo di transizione, come del resto è anche quello attuale, significava stare in mezzo alla gente, al popolo, con umiltà, cioè con la dimensione verace della propria persona – aggiunge ancora Riccardi – Aldo aveva letto quel terribile monito di don Lorenzo Milani: “Lo dico senza malanimo. Siamo tutti eguali […] Non vien voglia di dire al vescovo ciò che si pensa. E più comodo trattarlo con i soliti dorati guanti della menzogna che danno modo a lui e a noi di vivere senza seccature. Ed egli intanto cresce e matura e invecchia senza crescere ne maturare ne invecchiare. Passa per il mondo senza toccarlo. Non abbastanza alto per essere illuminato dal Cielo. Non abbastanza basso per insozzarsi la veste o per imparare qualcosa. Fa errori puerili, s’intende di tutto, giudica la storia, la politica, l’economia […]”» (p. 28).

Il Vaticano II era dunque per Naro la sorgente che ne ispirava l’azione riformatrice, alla scuola della Parola di Dio e della sua interiorizzazione. «Contestava – ricorda Massimo Naro - tanto l’attivismo disordinato quanto l’inerzia pastorale che, con la scusa del rispetto per il passato, si chiude al rinnovamento conciliare e alle fatiche che questo esige da chi guida la comunità ecclesiale» (p. 15). Parole che riecheggiano, osserva ancora l’autore, quelle rilasciate da Papa Francesco nell’intervista concessa ad Antonio Spadaro per La Civilta Cattolica nel 2013: «Riforme e discernimento, riforma e spiritualità, primato del rinnovamento della vita credente rispetto alla riorganizzazione strutturale, la quale comunque rimane importantissima e ineludibile» (p. 16). Una riforma che doveva passare per un rinnovamento culturale, al quale Naro collaborò insieme al cardinale Camillo Ruini nel Progetto culturale della Chiesa italiana, al quale credette, spiega Riccardi, «come l’occasione per «tornare a pensare» nella Chiesa (p. 32).

Guardare al Concilio “da oriente” e “dal basso”

La riforma fu vista da Naro «da oriente» e «dal basso». Intuizione dello storico Riccardi che individua nel vescovo di Monreale il primato dello “spirituale” e quindi «della preghiera (pregare e lavorare, diceva), della liturgia, dell’ascolto della Parola di Dio, della necessita della costante conversione» (p. 32). Senza rinchiudersi nello spirituale ma guardando «gli anni post-conciliari dal basso, cioè dalla storia e da una vita fatta di incontri e di amicizie» (p. 33).

Sensibilità che rende Naro molto vicino a Papa Bergoglio, le cui «impressionanti analogie» sono richiamate ancora da Riccardi e da monsignor Semeraro. Un repertorio ampio che qui proviamo a sintetizzare rimandando il lettore all’approfondimento personale dei contributi presenti nel testo. Dalla makrothymia, vale a dire quella dimensione di attesa e pazienza che fa del tempo «un evento di relazione, di incontro, di amore», poiché «il tempo e superiore allo spazio» al «superamento dell’autosufficienza» verso la ricerca di una «pastorale integrata» e integrale (p. 43), per una riforma che abbia delle evidenti ricadute «sulle persone, sulle strutture e sulla pastorale».

Ma anche il fatto che «riforma e discernimento vanno di pari passo» (p. 46), trovando nello strumento del Sinodo, (Naro s’impegnò in quello di Caltanissetta del 1989; Papa Francesco ne ha proposto due, uno sulla famiglia e un altro sui giovani), la possibilità per procedere «ad un “discernimento” della propria realtà ecclesiale alla luce del vangelo e del magistero». Legame evidente anche nella concezione di una «Chiesa missionaria in uscita», e nella «sinodalità» vista come «propensione all’ascolto». Comune l’individuazione di ciò che sta agli antipodi della riforma: «la pastorale dello struzzo» e la «pastorale clericale» e l’indicazione del rimedio «ad una siffatta, deformata e deformante, concezione», nella teologia del «santo popolo fedele di Dio», come osservato anche nel volume di Galli-Spadaro.

A partire dalla nota pastorale della Cei, “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”, e della stessa Evangelii Gaudium si osserva ancora la convergenza sulla necessità di «concentrarsi sull’essenziale», cioè, spiegava Cataldo Naro commentando la nota CEI, «sulla scelta dell’evangelizzazione, sul desiderio generoso di aiutare tutti a incontrare personalmente il Signore, a vivere nella sua amicizia e a fare del vangelo la propria regola di vita, il criterio di valutazione di ogni cosa». Parole che Papa Francesco ribadirà in Evangelii Gaudium, osserva Semeraro, ricordando che «l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che e più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e cosi diventa più convincente e radiosa» (EG, 35). Concludendo il suo intervento con un auspicio che mi sembra possa bene sintetizzare quanto si è cercato fin qui di esprimere: «Penso che la compagnia di Cataldo Naro nella rilettura di Evangelii Gaudium per la nostra Chiesa in Italia, sarebbe una compagnia oltremodo utile e gratificante».

“Questione di coraggio? Cataldo Naro e la riforma della Chiesa”, a cura di Massimo Naro (Edizioni Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp. 252, euro 16).

I commenti dei lettori