Francesco Messina, 56 anni, a Torino dall’inizio di gennaio dopo una vita da investigatore tra la squadra mobile di Milano, Brescia, la mobile a Reggio Calabria, i servizi segreti a Palermo. Catanese di nascita, ma milanese dentro perché è nel capoluogo lombardo che ha cresciuto le figlie. Quando parla di Torino si lascia già scappare qualche «noi» che segnala la sua capacità e la sua voglia di entrare in sintonia con la città. Per lui, in gessato, fisico da maratoneta e look vintage, il segreto dell’ordine pubblico è la squadra. Quella dei suoi uomini ma anche quella fatta quotidianamente con la procura, con i carabinieri, il sindaco e ovviamente il prefetto.

Buongiorno questore, la manifestazione di quindici giorni fa, quella per il comizio di Casa Pound, ha acceso sull’ordine pubblico torinese i riflettori nazionali. Quanto accaduto vi ha stupiti?

«Una reazione così forte in quel momento mi ha sorpreso, anche se l’avevo prevista. Il governo di quella manifestazione è stato fondamentale. Ma la pervicacia degli antagonisti nella ricerca dello scontro, quasi volessero dare un senso alla loro presenza in un quadro nazionale di tensione, è stata inusuale. E non si è più ripetuta».

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Una manifestazione di questo genere ben poco ha avuto a che fare con il dissenso politico o con l’antifascismo. Chi si è contrapposto a voi è un soggetto politico o criminale?

«Io devo far rispettare le regole, il dubbio rimane al cittadino non al questore. Per noi quella diventa criminalità comune e come tale la perseguiamo e come tale sarà perseguita dalla magistratura».

A chi giova un corteo così violento?

«Sicuramente a chi quella sera ci ha messo la faccia tra gli antagonisti. Ai personaggi che quella sera erano in prima fila tra gli uomini di Askatasuna. La polizia è l’incarnazione dell’antifascismo. Tenevamo i manifestanti a distanza e loro sono passati prima ai fuochi d’artificio, poi alle bombe carta che sappiamo. Non escludo che ci sia stata una strategia per garantirsi uno spazio di visibilità nell’ambito nell’anarco insurrezionalismo italiano».

Però voi l’avete gestita senza problemi. Soddisfatto?

«La polizia a Torino ha raggiunto una straordinaria capacità nella gestione dell’ordine pubblico. Non è stato mai perso il controllo in tutto l’arco della serata. Anche i feriti hanno continuato a lavorare e solo quando la situazione si è tranquillizzata si sono resi conto che avevano delle lesioni».

La manifestazione è stata un campanello d’allarme?

«Va letta con grande attenzione per non replicare situazioni del passato. Le condizioni sono mutate ma bisogna cercare di osservare i picchi e i momenti di cambio di passo. Certe cose accadevano in Valle nei giorni della lotta No Tav ma non erano mai accadute in città. Questo è un segnale. Nell’analisi del fenomeno è fondamentale il dialogo con la procura. Insieme possiamo anticipare ed evitare dinamiche che possono portare a escalation».

Sembra un momento particolare per la città, se pensiamo anche alle tensioni nel quartiere Aurora con gli occupanti dell’Asilo?

«Il caso di Askatasuna è molto diverso dall’Asilo. Gestiamo con molta attenzione entrambe le situazioni anche se tutto sembra svolgersi in un contesto che pare anacronistico, che ricorda la fine degli Anni 80».

I torinesi non si spaventano, ma in città c’è un forte senso di insicurezza anche se da cinque anni i reati sono in calo costante...

«Non posso usare a Torino lo stesso sguardo che avevo a Caserta o a Perugia. Bisogna imparare. Ma Torino ha un senso civico unico, non è un caso che carabinieri, questure e prefetture siano nate qui. Si percepisce il rispetto delle istituzioni. Quando il torinese chiede aiuto alle istituzioni c’è una ragione, non lo fa a caso».

Controlli della polizia a San Salvario

Per cosa chiedono aiuto?

«Sono preoccupati del piccolo spaccio, di quello che si nasconde sotto la movida. L’insicurezza è diffusa e riguarda tutti, ma si cerca di trovare un obiettivo su cui convogliarla, capita con il diverso o con lo straniero. Noi dobbiamo entrare sempre di più nei quartieri e dare al cittadino la percezione di essere presenti. Per farlo bisogna intervenire in modo importante e duraturo. Il controllo del territorio serve a far capire che ci sei. Comunque, i risultati sulla percezione dell’insicurezza si vedranno tra un anno. Una battaglia continua».

Come si combatte?

«Serve un controllo del territorio costante con manifestazioni anche straordinarie nelle zone a rischio e poi serve un’attività investigativa continua e rapida perché se il cittadino ha paura non ha tempo di aspettare. I principali nemici sono scippi, spaccio, truffe agli anziani, la criminalità di strada, fenomeni che vanno a colpire le fasce e le zone più deboli della città. Noi arrestiamo gli spacciatori ma dobbiamo arginare anche gli acquirenti e per farlo è indispensabile intervenire sul sociale, sul recupero dei tossicodipendenti da togliere dalla strada per far diminuire la domanda. C’è un tasso di criminalità che non può essere cancellato, ma deve essere governato. Anche a Topolinia c’è la Banda Bassotti».

Per fare questo tipo di lavoro serve grande impegno da parte di ogni singolo agente, anche di quelli che lavorano in condizioni difficili. Qual è la mediazione?

«Una delle mie fissazioni è il dialogo con il sindacato, è fondamentale nella comunicazione interna. La maggior parte dei nostri sindacati sono istituzionali, ho creato dei tavoli di dialogo informali dove affrontare i problemi al di fuori delle relazioni sindacali. In questo modo possiamo intervenire sul benessere del personale e sulle singole situazioni di difficoltà. Un questore deve saper gratificare i propri uomini, ma anche entrare in rapporti costruttivi con chi tutela il personale senza arrivare alla cogestione. Ognuno con le proprie caratteristiche e responsabilità».

Ci fossimo incontrati un anno fa il fulcro di questa intervista sarebbe stato l’integralismo islamico. Emergenza finita?

«Torino è una città con una presenza di extracomunitari molto elevata. La sconfitta sul piano militare di Daesh, il modo in cui l’Isis chiama se stesso, ha cambiato lo scenario. Ma il controllo delle aree a rischio è costante e una grande attenzione va messa sulla rete per tenere sotto controllo soggetti che possono passare rapidamente ad azioni che in altre città sono state devastanti. Abbiamo una Digos straordinaria e un Ufficio immigrazione molto capace: non abbiamo certo abbassato la guardia o considerato il fenomeno in diminuzione».

Torino ha sviluppato una grande capacità di mediazione. Qual è il segreto?

«Un passaggio fondamentale quando si è in presenza di soggetti che si vogliono integrare è il dialogo. La questura deve saper dare risposte agli extracomunitari che chiedono informazioni, nei loro confronti serve lo stesso tipo di dialogo che abbiamo con un italiano che vuole fare il passaporto».

Piazza San Carlo dopo la notte da incubo

La notte di piazza San Carlo ha creato l’incubo della circolare Gabrielli e spesso ha visto le questure sul banco degli imputati per le manifestazioni saltate.

«C’è un equivoco di fondo che non so fino a che punto sia casuale o strumentale. Quella circolare è solo una razionalizzazione di regole già presenti nel nostro ordinamento. Ma quando ho gestito Umbria jazz, Spoleto o Eurochocolate mi sono confrontato spesso con chi parlava delle “nuove regole imposte dalla circolare Gabrielli”. Ma è una falsità. Se non lo si capisce quella circolare diventa uno strumento per affermare che le manifestazioni non si possono più fare. Per questo il capo della polizia ha partecipato al carnevale di Ivrea, un evento che ha dimostrato che se le cose sono fatte bene poi tutti ci guadagnano».

Cosa fa arrabbiare un questore?

«Il questore è difficile che si arrabbi. Deve restare lucido. Arrabbiarsi comporta perdita di lucidità, invece ci vuole una grande pazienza. Il questore non è solo il capo della polizia, ma l’autorità di pubblica sicurezza tecnica. Le scelte non devono essere dettate dalla rabbia. Quando vedi che ti feriscono gli uomini e tu non hai fatto nulla per scatenare reazioni così violente, devi restare calmo e non reagire con rabbia e forza».

Lei sottolinea spesso che il questore non è da solo…

«Vero. C’è una squadra con tutti gli attori della sicurezza il prefetto, il comandante dei carabinieri, il procuratore della Repubblica e anche la sindaca. Ognuno ha un ruolo straordinario. Il questore da solo non va da nessuna parte e produce risultati sulla sicurezza solo se sa lavorare in squadra. E anche il cittadino fa parte della squadra».

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