Cosa voteranno stavolta i copti? La risposta alla domanda che serpeggia al Cairo in queste ore è la chiave per valutare la popolarità del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, in corsa contro un unico sfidante per il suo secondo e teoricamente ultimo mandato. Nel 2014, grati per aver liberato il Paese dalla minaccia dei Fratelli Musulmani, i copti lo seguirono in massa, riflesso condizionato di una minoranza necessariamente governativa ma anche paradigma di un popolo pronto a chiosare sulla democrazia invocata a Tahrir in cambio di sicurezza e stabilità.

Molte cose sono cambiate da allora, mormora un parrocchiano di Mar Mina, la chiesa devastata dall’attentato del 29 dicembre scorso, l’ultimo in ordine di tempo. Siamo a Helwan, periferia a sud del Cairo popolata di contadini, pastori, capre e operai dei vicini cementifici.

A pochi metri dal campanile, protetto da due poliziotti e tre bidoni, un gruppo di donne velate scende dal minibus avvolto nel tricolore e invade il seggio esibendo entusiasmo. I cristiani, soprattutto quelli poveri, non votano e, dicono, diversamente dal resto della popolazione, non sono stati neppure invogliati con banconote da 50 pound (3 euro) o trasporti gratis.

«Siamo stati fiduciosi ma invano, il terrorismo ci ha colpito come prima e la promessa del regime di costruire nuove chiese è rimasta carta straccia, con il risultato che almeno 3 milioni di copti hanno lasciato l’Egitto negli ultimi 7 anni» spiega Yacoub, 53 anni, muratore. Sebbene i più benestanti restino fedeli, lui ha scelto il boicottaggio; altri, come l’insegnante Hany, votano l’alternativa formale Mousa Mostafa Mousa, un escamotage per dissentire senza affossare il sistema rischiando il caos.

L’Egitto è di nuovo a un bivio, ma stavolta le divisioni sono più profonde di quelle che nel 2013 contrapposero i sostenitori a vario titolo dei Fratelli Musulmani ai laici irriducibili al punto da preferire «il fascismo militare a quello religioso».

Girando la città nel primo dei tre giorni elettorali l’impressione è che, per ragioni diverse, pochi vadano o andranno alle urne. E non solo nella polverosa Helwan, dove la contadina Naema pesa le banane da 5 pound al kg e chiede se veramente sarà multata per aver perso la carta d’identità e non potrà votare.

A Maadi, quartiere verde amato dagli americani, sotto le bandierone che riparano dal sole già estivo si contano pochi volenterosi, due, tre, dieci. A Torah, dove si trova la prigione che ospitò quello stesso Mubarak oggi sorridente con i nipotini sui campi di golf dei club militari, nella facoltosa Heliopolis e nella misera Inbaba: dovunque la scena si ripete identica. Il gruppone si forma solo quando a scaricarlo sono i pullman organizzati ma spesso, come alla scuola di Sayed el Bakri a Zamalek, gli elettori sono visibilmente i più poveri tra i poveri, maglie troppo grandi, pantaloni troppo corti, ciabatte.

Eppure dalle auto incolonnate nel traffico rimbomba festosa e un po’ inquietante la canzone lanciata all’indomani della cacciata di Morsi, «Tislam el eyadi», «grazie per quanto hanno fatto le tue mani». Un consenso per il presidente che, almeno in apparenza, non si riflette sui seggi.

«Al Sisi ha perso prima gli attivisti, braccati o incarcerati come neppure ai tempi di Nasser, e ora sta perdendo gli altri, i professionisti medio bassi colpiti dalle riforme troppo repentine, gli imprenditori non baciati dal boom immobiliare, i copti» spiega un ex ragazzo di Tahrir in una conversazione audio su WhatsApp, fino a prova contraria non tracciabile. Il suo candidato ideale, l’avvocato Khaled Ali, forzato a ritirarsi, ci ripete che è un voto farsa. Ma tant’è.

Restano i poveri, quelli che di solito nelle democrazie votano poco o niente e qui in Egitto servono a compensare la latitanza della borghesia. Per quanto reggeranno ancora alla morsa dell’inflazione e della fame?

«Sostengo il regime ma non voto perché le tante cose giuste realizzate in economia non compensano l’annichilimento della politica, il presidente avrebbe vinto lo stesso contro qualsiasi candidato ma eliminarli uno dopo l’altro è un record che neppure sotto Mubarak» ragiona con tre amici il businessman Moattamer in un caffè di Garden City. Erano in piazza nel 2011 e nel 2013, oggi, oltre a Moattamer disertano in due, l’altro, ammette, si tura il naso per non affossare l’affluenza a rischio flop. Tutti però pensano al 2020, quando al Sisi non sarà ricandidabile a meno di cambiare la Costituzione, quel che resta del patto sociale egiziano.

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