Il Patriarcato latino di Gerusalemme istituirà una parrocchia personale per i migranti e i rifugiati in Israele. Ad annunciarlo con una lettera ai parroci è l’amministratore apostolico monsignor Pierbattista Pizzaballa; ed è una scelta che arriva proprio in un momento in cui in Israele è particolarmente calda la discussione sul tema dei migranti, dopo la vicenda dell’accordo con l’Onu sui richiedenti asilo che il premier Netanyahu lunedì ha prima annunciato e poi cancellato nell’arco di poche ore, sotto pressione dell’estrema destra e dei movimenti anti-immigrazione.

«Da diversi anni la comunità ecclesiale in Israele si è arricchita di decine di migliaia di stranieri che stabilmente vivono nel nostro territorio e affollano le nostre chiese - ricorda Pizzaballa -. Filippini, indiani, srilankesi e molti altri sono ormai diventati parte integrante della nostra comunità. Accanto a loro sono arrivati negli ultimi anni anche rifugiati, provenienti dal Sud-Sudan e dall’Eritrea».

Questi nuovi volti della presenza cristiana in Israele sono un fatto numericamente significativo, ma allo stesso tempo vivono in una condizione di forte precarietà; la legge locale considera infatti la loro presenza solo un fatto temporaneo, legato essenzialmente alle necessità del mercato del lavoro, e ne ostacola in ogni modo il radicamento. Inoltre - come proprio la vicenda dei richiedenti asilo sta mostrando in questi giorni - in Israele non sembra esserci oggi nessuna disponibilità a riconoscere ufficialmente lo status di rifugiato anche a profughi provenienti da Paesi feriti da conflitti fratricidi o da regimi autoritari, come sono appunto il Sud Sudan e l’Eritrea.

Il rischio, dunque, è che continuino a restare presenze invisibili e additate con ostilità. Al contrario per il Patriarcato latino oggi diventa ancora più importante riconoscere questi fratelli venuti in Israele da lontano come parte della propria comunità, accanto agli arabi cristiani e alla piccola realtà dei cattolici di espressione ebraica. «Se è vero che molti giungono alle nostre chiese per pregare - spiega l’amministratore apostolico nella sua lettera - molti di più rimangono lontani dalle chiese e da qualsiasi servizio religioso, spesso alla mercé della criminalità locale e di altre situazioni di rischio oltre che di sette evangeliche. Va detto, inoltre, che dal punto di vista legale e canonico, oltre che sociale, la maggior parte di queste persone vive in situazioni limite, spesso irregolari».

Ecco allora la scelta di trasformare l’attuale Coordinamento per la pastorale dei migranti, in una vera e propria parrocchia personale, che d’ora in poi risponderà direttamente al patriarca e sarà guidata da un vicario ad hoc. Nascerà ufficialmente il 20 maggio, festa di Pentecoste, con l’intento di «garantire un servizio pastorale completo ai tanti che sono lontani dalle nostre chiese, ma che - nonostante le difficili circostanze nelle quali vivono - vogliono comunque avere un accompagnamento ecclesiale».

Riferimento pastorale, dunque. Ma senza ignorare le questioni sociali. Perché - scrive ad esempio Pizzaballa - anche le minacce di espulsione che permangono per i richiedenti asilo africani in Israele comporteranno per la Chiesa locale «nuove iniziative da definire, per le quali sarà necessario essere preparati». 

«Il popolo ebraico sa che cosa vuol dire essere schiavo, essere liberato da Dio e diventare un popolo libero», commentava del resto ieri intervistato dall'agenzia Sir padre Rafic Nahra, l'attuale coordinatore della pastorale dei migranti per il Patriarcato di Gerusalemme. Aggiungendo un appello: «Israele si ricordi di questa esperienza e la dignità che ha ricevuto ora la dia anche ad altri. Ci sono tantissimi israeliani, dotati di una splendida generosità, che aiutano i migranti e i richiedenti asilo. La stessa generosità la mostrino anche i politici».

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