Dalla privatizzazione sono passati più di vent’anni, ma Telecom è ancora quella di allora: ha un azionista di controllo e gestisce la rete. Ora lo Stato riparte dal cinque per cento, e con l’obiettivo di fare della Telecom la public company che mai è riuscita ad essere. La decisione di far tornare lo Stato nel capitale dell’ex monopolista pubblico matura martedì in un vertice riservato fra Paolo Gentiloni, Piercarlo Padoan e Carlo Calenda. Lo fa un governo dimissionario, e la cosa appare bizzarra. Ma i ben informati raccontano che sono stati sondati i vincitori delle elezioni, e nessuno – almeno fra quelli che nei partiti contano - avrebbe avanzato obiezioni invincibili: non il Pd, non la Lega, né il M5S o Silvio Berlusconi, che ha sempre subito l’attivismo di Vincent Bolloré, in Telecom prima e in Mediaset poi. Ieri durante il consiglio di amministrazione della Cassa c’è chi ha avanzato obiezioni (Stefano Micossi ha dato le dimissioni), soprattutto per il costo oneroso dell’operazione. Perplessità sono emerse fra i Cinque Stelle, da parte dello stesso Padoan (che il portavoce smentisce), ed Elliott sarebbe rimasto sorpreso dalla cattiva gestione della comunicazione e dallo strappo del titolo in Borsa. Ma alla fine ha prevalso la linea aggressiva di Calenda, deciso a mandare un messaggio ai francesi, finora poco inclini ad ascoltare le ragioni italiane e a garantire al governo la neutralità della rete.

Ma perché il governo prende questa decisione solo ora, proprio mentre sono in scadenza anche i vertici della Cassa? Dal governo avanzano due ragioni. La prima è l’arrivo sulla scena di un alleato in grado di mettere in discussione la leadership francese, ovvero il fondo americano Elliott. Anche questo è un dettaglio bizzarro della storia: un fondo di investimento speculativo alleato di uno Stato sovrano. Paul Singer è un esperto di operazioni rischiose, e in Italia ha scommesso già su Ansaldo e – guardacaso - sul Milan. Proprio l’attivismo di Elliott – questa la versione che filtra dai palazzi della politica - sarebbe una delle ragioni scatenanti dell’intervento pubblico: perché contro Elliott sarebbero stati pronti a schierarsi Generali e Unicredit, due aziende italiane governate da due manager francesi, Philippe Donnet e Jean Pierre Mustier. I tre - Bolloré, Donnet e Mustier - sono effettivamente amici, ma questa non sembra una ragione sufficiente per far tornare lo Stato azionista in Telecom.

La verità è un’altra: il governo – quello di Renzi prima e di Gentiloni poi – ha malsopportato Bolloré e fatica a tenere in vita Open Fiber, il concorrente pubblico voluto da Renzi per spingere Telecom a investire di più sulla rete. «Dipendesse da loro ne farebbero una depandance di Vivendi», sintetizza un’autorevole fonte governativa che parla solo sotto garanzia dell’anonimato. Telecom è un’azienda compiutamente privata che controlla la più importante infrastruttura di telecomunicazioni del Paese. Non è così per la rete del gas, né per quella elettrica, entrambe controllate da Cdp. Per ottenere da Vivendi il solo scorporo societario il governo ha dovuto attivare i poteri speciali e mostrarsi apertamente favorevole a Elliott. L’acquisto della quota pubblica è solo l’ultimo passo di una strategia iniziata da mesi, e – sottolineano le fonti dell’esecutivo – serve a tenere d’occhio Elliott, il cui obiettivo è massimizzare il proprio investimento. La vittoria alle elezioni di Lega e M5S - favorevoli a rimettere in gioco lo Stato nell’infrastruttura di rete – è l’alibi perfetto per il blitz a tempo scaduto. Ma sarà sufficiente il 5% per ottenere la cessione di una rete valutata più di 10 miliardi? E quanto peserà il conflitto di interessi di Berlusconi se sarà parte del nuovo governo? E infine: come costruire una public company quotata sul modello di Terna? Quest’ultima era una società pubblica ceduta sul mercato, qui il percorso dovrà essere inverso. Con una complicazione in più: la Cassa, azionista con Enel di Open Fiber, vuole celebrare le nozze delle due reti. Insomma, un piano ben più complesso di quello che sfumò nell’ormai lontano 2006.

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