A 24 ore dall’attacco chimico di Bashar al-Assad a Douma, Israele colpisce in Siria e scatena l’ira di Mosca, che denuncia per la prima volta «la violazione della sovranità siriana» da parte dello Stato ebraico. Vladimir Putin pensava di aver realizzato uno scudo impenetrabile e ora si vede vulnerabile di fronte a un eventuale, più massiccio, bombardamento americano. Da 72 ore il fronte mediorientale è in accelerazione, in una sfida che vede la Siria, l’Iran, la Russia, l’America e la Francia duellare a colpi di dichiarazioni di fuoco e fuoco vero: una escalation che rischia di portare a un confronto diretto, come nemmeno durante la Guerra fredda.

Il raid «condotto da due F-15 israeliani», secondo la ricostruzione fornita da Mosca, ha colpito ieri prima dell’alba la base T4, a 60 chilometri a Ovest di Palmira, il perno delle difese russe e iraniane nel cuore del deserto siriano: quattordici militari sono rimasti uccisi, tre iraniani. La T4 è strategica, perché permette ai russi di controllare il fronte orientale, dove oltre ai superstiti dell’Isis ci sono le forze americane da sorvegliare. Ma la T4 è usata dai Pasdaran iraniani per gestire una squadriglia di droni di osservazione, che invece puntano verso Sud, il Golan e il confine israeliano. Ed era questo il primo obiettivo del raid di ieri.

Il confronto con l’Iran è incandescente da due mesi. Il 10 febbraio un drone iraniano penetra sul Golan e Israele reagisce con un raid sulla T4 condotto da ben otto F-16. Uno però viene abbattuto dai sistemi anti-aerei. È la prima volta che Damasco riesce a colpire un jet israeliano dal 1982 e la battaglia aerea viene vissuta come un trionfo. Ma a essere soddisfatta è Mosca. Negli ultimi tre anni ha trasferito in Siria un imponente apparato difensivo: batterie S-400 e S-300 gestite dai russi, sistemi S-200 ammodernati e affidati ai siriani, batterie mobili Pantsir S-1 contro i missili da crociera.

Putin è convinto che nessuno possa attaccare la Siria impunemente, né gli israeliani né gli americani, che il 7 aprile 2017 avevano bombardato la base aerea di Shayrat dopo l’uso di armi chimiche da parte del regime a Khan Sheikhoun. Sotto lo scudo russo, il 18 febbraio, Assad può lanciare l’assalto alla sacca ribelle della Ghouta orientale. È l’ultima spina nel fianco del regime e deve essere liquidata per poter spostare una mezza dozzina di divisioni verso i confini, compresi quelli a ridosso di Israele.

Washington e Parigi avvertono che in caso di massacri chimici reagiranno. Il capo di stato maggiore russo, generale Valery Gerasimov, ribatte che in caso di raid gli aggressori «pagheranno un prezzo alto» e saranno presi di mira i loro jet e persino le «basi di lancio» dei missili, cioè le navi nel Mediterraneo orientale. La Ghouta viene investita da un diluvio di fuoco e in un mese e mezzo i ribelli sono in ginocchio, si arrendono in massa. Resiste soltanto Douma.

Il regime e i russi sentono aria di trionfo. Offrono la resa anche ai ribelli irriducibili di Jaysh al-Islam, che però rispondono a Riad e non ad Ankara, ormai alleata di Mosca. Venerdì riparte l’assalto, fino al massacro chimico nella notte fra sabato e domenica, con un centinaio di vittime civili per il gas cloro o forse di peggio. Come nell’aprile del 2017 Washington è pronta al raid di rappresaglia, spalleggiata dalla Francia. E anche Erdogan si dice preoccupato e chiama l’alleato Putin per chiede chiarimenti sul sospetto uso di gas da parte di Assad.

Ma la situazione militare sul terreno è diversa. I russi hanno continuato a far affluire difese anti-aeree, con navi da trasporto che arrivano a Tartus quasi tutte le settimane. Putin ha detto che reagirà, che non lascerà che siano messe in pericolo le vite delle migliaia di soldati russi in Siria. Può essere un bluff, può essere vero. A vedere le carte, forse su richiesta degli americani, è l’aviazione israeliana.

L’attacco è uno choc. La tv di Stato siriana accusa prima gli Stati Uniti, poi la Francia, che smentiscono. Infine arrivano le dichiarazioni di fuoco della Russia: Israele «ha violato la sovranità siriana». Il ministro degli Esteri Serghei Lavrov parla di «pericolose conseguenze», e definisce «fake news l’uso di armi chimiche». Il ministero della Difesa fornisce i dettagli. Sono stati due «caccia F-15» a lanciare «otto missili» a lungo raggio, «dallo spazio aereo libanese». Cinque sono stati «intercettati», altri tre hanno colpito «la parte occidentale della base» senza però far vittime fra il personale russo.

I dettagli rivelano l’irritazione di Mosca. I suoi militari sono ormai presenti in tutte le basi aeree e unità dell’esercito siriano. Il loro compito è guidare i raid e coordinare le difese aeree. Mosca punta soprattutto sui sistemi mobili Pantsir S-1, in grado anche di intercettare missili. Ma non tutti. Le forze armate israeliane non confermano e non smentiscono il raid, come al solito. Hanno segnato un punto. Ora il gioco è in mano a Donald Trump e a Emmanuel Macron, con un quadro della situazione militare più chiaro. Il resto è politica.

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