Vittorio Signorello, parlando con Giovanni Giuseppe Li Gambi, un imprenditore estorto che aveva preferito farsi condannare, piuttosto che ammettere di avere pagato il pizzo, se la prendeva pure con Giuseppe Di Matteo, il ragazzino rapito, segregato per 26 mesi, ucciso e sciolto nell’acido, su ordine di Giovanni Brusca: «Ha sciolto a quello nell’acido… non ha fatto bene? Ha fatto bene!», diceva Signorello. E Li Gambi: «Se la stirpe è quella… suo padre perché ha cantato?», con riferimento al padre della giovanissima vittima, Santino Di Matteo, pentito che non aveva accettato di tacere. «Perché non hai ritrattato? Se tenevi a tuo figlio… allora sei tu che non ci tenevi…».

Messina Denaro però non si trova: è dovunque e in nessun posto, chi indaga ne sente l’odore: il 3 settembre 2016 Nicola Accardo e Antonino Triolo sfogliano i suoi “pizzini” e gli investigatori sentono lo sfregamento delle dita sulla carta, ascoltano come veniva poi strappata: «Qua (nel biglietto che stavano leggendo, ndr) non gli ha detto che sta qua, dice che era in Calabria ed è tornato… passa qua e i cristiani ci vanno», con riferimento ad appuntamenti, a gente che lo venera, alla madre di Matteo, «che lui non scrive e lei si lamenta», un commovente quadretto familiare del latitante che trascura gli affetti più cari, perché «non gli interessa niente di nessuno».

Battaglie per la legalità, lotta alla mafia senza quartiere, ricerche incessanti del superlatitante Matteo Messina Denaro e poi si scopre che i suoi uomini, in provincia di Trapani, sono sempre pronti a seguirlo «sino alla morte», a santificarlo, a fare – accanto alla statua di Padre Pio – una statua pure a lui e al padre, Ciccio Messina Denaro, superboss morto vent’anni fa in latitanza, mentre si trovava assieme al figlio. E lui, Matteo, detto «lu siccu», il magro, è ancor oggi uccel di bosco. Grazie a una rete di protezione che «copre» le sue comunicazioni, fatte attraverso i pizzini, e i viaggi: «Dice che era in Calabria ed è tornato», dicono due fedelissimi, senza sapere di essere intercettati. Mentre altri due commentano la morte di Totò Riina (17 novembre scorso), affermando che «questo potere vedi che prende ora, compare». E Vittorio Signorello, ritenuto un mafioso del Trapanese, aggiungeva: «Prende quota… è come a Birgi (l’aeroporto di Trapani, ndr): appena se ne va il comandante, c’è quello che sale… non ce n’è buccia per nessuno, qua».

I 22 fermi eseguiti tra Castelvetrano, Mazara e Campobello di Mazara, da uno schieramento di forze investigative imponente, che ha messo assieme carabinieri, polizia e Dia, i gruppi di eccellenza del Ros e dello Sco, il Comando provinciale di Trapani e le Squadre mobili di Palermo e Trapani, fanno emergere il gruppo ristretto dei pretoriani dell’ultima grande primula rossa di Cosa nostra siciliana. «Una statua gli devono fare – diceva, senza sapere di essere intercettato, Signorello – una statua allo zio Ciccio… Padre Pio e ci devono mettere allo zio Ciccio e a quello accanto… quelli sono i santi», con riferimento a Francesco e Matteo, padre e figlio Messina Denaro. Signorello rivendicava il “diritto” di pensarla così: “Significa essere colpevole? Arrestami! Che fa, non posso dire quello che penso?”. Discorsi tra il qualunquistico e il bislacco: «È potuto essere stragista, le cose giuste, ma mangia e fai mangiare, voialtri tanto mangiate e state facendo diventare l’Italia uno stivale pieno di merda… le persone sono scontente… arrestami, che m… vuoi? Sino alla morte, come diceva quello».

Era il 10 marzo, poco più di un mese fa, la conversazione era tra Signorello e un altro dei fermati, Gaspare Como, e avveniva a Triscina, località di mare in cui si cerca invano, da anni, di buttare giù le case abusive. In cella pure Rosario Allegra: lui e Como sono mariti rispettivamente di Giovanna e Bice Messina Denaro, sorelle di Matteo. Intrecci familistici, una mafia fatta in casa, col boss che si fida solo dei prossimi congiunti, tutti progressivamente arrestati: l’altra sorella Anna Patrizia tre giorni fa si è vista confermare in Cassazione la condanna a 14 anni e 6 mesi e in cella ci sono pure i nipoti Francesco Guttadauro e Luca Bellomo, il cugino Giovanni Filardo e sono appena usciti l’altro fratello, Salvatore Messina Denaro e il marito di Patrizia, Vincenzo Panicola. Ma sradicare questo clan è complicato, forse anche impossibile: il boss del quale non si conosce il volto né si ha idea di dove si nasconda, dà segnali di presenza sul territorio, magari non sempre fisicamente, ma al punto da occuparsi pure di una controversia fra pastori per ragioni di pascolo. «Ci dobbiamo fare stringere la mano», diceva Como, il cognato.

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